attualità, politica italiana

"Se in politica vince l'infedeltà", di Michele Brambilla

Nell’annunciare il rimpasto di governo, Berlusconi ha avuto perlomeno il pregio della sincerità: «Siccome la politica è anche concretezza – ha detto – non è il caso di fare gli schizzinosi». In pratica, ha voluto comunicare questo concetto: so benissimo che i nuovi sottosegretari non sono dei geni, ma le loro promozioni sono funzionali al proseguimento dell’attività di governo, e vorrei che nessuno facesse la verginella perché in politica s’è sempre fatto così.

Su questo, il premier non ha torto. Non è la prima volta che le nomine vengono fatte non per merito o per competenza specifica, ma perché è utile premiare qualcuno che rende un servigio. Non è bello, ma sarebbe ingiusto dire che succede solo ora con il governo Berlusconi. La politica è stata tante volte il regno del «todos caballeros», l’onorificenza collettiva che Carlo V, da un balcone, concesse agli algheresi per ricompensarli della loro fedeltà.

Ma il «todos caballeros» è sempre stato – se non un premio alla qualità – un premio, appunto, alla fedeltà.

Tanto che, da che la politica è politica, chi andava in cerca di poltrone si preoccupava di mostrare la propria lunga e inossidabile militanza. Al tempo del fascismo, ad esempio, si creò a un certo punto una curiosa categoria: quella degli «antemarcia», camicie nere che cercavano di dimostrare al partito quanto la propria fedeltà al Duce risalisse a tempi non sospetti; a prima, appunto, della marcia su Roma.

Si può dire lo stesso dei nuovi sottosegretari? Si può dire che sia stata premiata la fedeltà di chi nel 2008 è stato eletto con il Pdl, ma l’anno scorso è passato con Fini; tre mesi dopo, il ritorno con Berlusconi e ieri la nomina a sottosegretario. Ma se questi casi sono come la parabola del figliol prodigo, che dire ad esempio di Daniela Melchiorre? È stata sottosegretaria del governo Prodi, poi è passata al Pdl, quindi è passata con i Liberal Democratici Riformisti che sono all’opposizione, a dicembre 2010 ha firmato una mozione di sfiducia contro il governo Berlusconi e ieri è diventata sottosegretario del governo Berlusconi.

C’è da perderci la testa. Se guardate le biografie dei nuovi sottosegretari, vedete che otto su nove hanno una storia così, un po’ di qua e un po’ di là; e che «di qua» – nel senso di «con Berlusconi» ci sono appena arrivati o tornati, giusto in tempo per salvare il governo e poter battere cassa.

Solo uno, dei nove nuovi sottosegretari, può esibire un curriculum immacolato. Si chiama Antonio Gentile ed è un mezzo sconosciuto: ma nel quadro appena descritto la sua figura emerge come quella di un gigante. È sempre stato con Berlusconi: da Forza Italia al Pdl, mai uno sbandamento. Gentile segna il gol della bandiera per quelle legioni di berlusconiani antemarcia che hanno sempre servito la causa e che restano al palo per non avere da offrire neanche un adulterio. Perché, paradossalmente, i più inferociti per la premiazione di tante disinvolte conversioni sono probabilmente i berlusconiani più duri e puri, i tanti parlamentari o consiglieri comunali o semplici militanti di partito che hanno cominciato la battaglia per il Cavaliere nel lontano ‘94, da peones: e che peones sono rimasti. In questo trionfo di fedifraghi, Antonio Gentile è l’unico a poter dare una speranza ai vecchi bigotti che credono ancora che la fedeltà sia un valore da premiare.

Senza voler fare troppo i moralisti, il rimpasto di ieri appare come uno dei punti più bassi della pur non eccelsa politica di questi nostri ultimi tempi. C’è come un’impudenza, questa volta, nel mostrarsi cinici e opportunisti. Che insegnamento devono trarre dal rimpasto di ieri gli italiani, soprattutto i giovani che faticano a trovare un posto di lavoro? Visti i tempi che corrono, non ci stupiremmo se oggi si scoprisse che la nomina di Gentile è frutto di un errore, o di un caso di omonimia; e che – appena scoperto lo scambio di persona – l’ingenuo monogamo non venga invitato a dimettersi, e a lasciare il posto a qualcuno meno affidabile e quindi più presentabile.

La Stampa 06.05.11

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“Razzi suoi”, di Massimo Gramellini

Vorrei spezzare una lancia, o almeno una pancia, a favore del povero Scilipoti, ingiustamente elevato da noi pennivendoli a simbolo del mercato delle vacche di piazza Montecitorio. Nel rimpasto di ieri il capo dei Responsabili ha rimediato soltanto un esilarante inno di partito, composto da una sottomarca di Apicella, che sta facendo il giro di tutte le radio come antidepressivo. Ben diverso il destino del compare Antonio Razzi, cresciuto anche lui alla corte di Di Pietro (l’ex magistrato non ha gran fiuto nella scelta degli uomini, gli vengono quasi meglio i congiuntivi). Razzi. Quello che sei mesi fa diceva «io ho una faccia sola: come potrei farmi vedere ancora in giro, se passassi con Berlusconi?» e poi è passato con Berlusconi, faccia compresa.

Quello che denunciava «il Pdl ha persino proposto di pagarmi il mutuo» e da neo-alleato del Pdl ha presentato una proposta di legge per togliere l’Ici agli italiani residenti all’estero, cioè a se stesso. Quello che, sistemata la casa, voleva arredarla con una poltrona, «un posticino, qualcosa per dire grazie». E ieri il posticino è arrivato: consigliere personale del ministro dell’Agricoltura, il corresponsabile Romano. Razzi dovrà occuparsi di lotta alla contraffazione alimentare. Cautamente sondato sulle sue esperienze in materia, il neo-consigliere ha risposto: «Sono un buongustaio e soprattutto un buon cuoco: a tempo perso, aiuto mia moglie in cucina». Perché il vero tratto distintivo di questa casta di macchiette non è più nemmeno l’incompetenza. E’ la mancanza di vergogna.

La Stampa 06.05.11