Festeggiata con grida di trionfo negli Stati Uniti, l´uccisione di Bin Laden crea nelle menti più sconcerto che chiarezza, più vertigine che sollievo.
La storia che mette in scena somiglia ben poco a quel che effettivamente sta accadendo nel mondo: è parte di una guerra contro il terrore che gli occidentali non stanno vincendo in Afghanistan, e da cui vorrebbero uscire senza aver riparato nulla. È un´operazione che rivela la natura torbida, mortifera, dell´alleanza tra Usa e Pakistan: una potenza, quest´ultima, che usa il terrorismo contro Afghanistan e India, e che per anni (cinque, secondo Salman Rushdie) ha protetto Bin Laden. Che lo avrebbe custodito fino a permettergli di costruirsi, a Abbottabad, una casa-santuario a 800 metri dal primo centro d´addestramento militare pakistano.
Ma l´operazione nasconde due verità ancora più profonde, legate l´una all´altra. La prima verità è evidente: Bin Laden era già morto politicamente, vanificato dai diversi tumulti arabi, e la cruenza della sua esecuzione ritrae un Medio Oriente e un Islam artificiosi, datati, che ancora ruotano attorno a Washington. Il terrorismo potrebbe aumentare, anche se l´America, che ha visto migliaia di connazionali morire nelle Torri Gemelle, gioisce comprensibilmente per la giustizia-vendetta. Come in M – Il mostro di Düsseldorf l´assassino è stato punito, ma l´ultima scena manca: quella in cui una mano potente agguanta il colpevole, lo sottrae alla giustizia sommaria, lo porta in tribunale. La parola che sigilla il film di Fritz Lang è: «In nome della legge». È la formula performativa che non s´è sentita, a Abbottabad. Con i nostri tripudi avremo forse contribuito alla trasfigurazione di M – il mostro di Al Qaeda.
Oltre che morto politicamente Bin Laden era divenuto irrilevante, prima di essere ucciso. La sue cellule gli sopravvivono, non avendo in realtà bisogno d´un capo per agire. Ma il suo desiderio di forgiare l´Islam mondiale era già condannato. Il mondo arabo e musulmano sembra aver imboccato una via, dal dicembre 2010, che rompe radicalmente con la visione che egli aveva dell´Islam, dell´indipendenza e dignità araba, della democrazia occidentale. La rivoluzione araba è cominciata con un evento, in Tunisia, che lui avrebbe ripudiato: la decisione di un giovane arabo di protestare contro il regime uccidendo se stesso, non seminando morte come un kamikaze, immaginando l´inferno fuori di sé.
Il terrorismo come metodo emancipatore non ha più spazio nelle cronache odierne, perché il suo obiettivo strategico è percepito da milioni di arabi come la radice stessa del male: come atto che espropria di potere il cittadino ordinario, che lo trasforma in uomo nudo, infantilizzato, mosso da paura. Seminando panico, l´atto terrorista congela l´emancipazione dal basso, proprio perché agisce in nome del popolo, non con il popolo. Gran parte dell´Islam non seguì questa via, dopo l´11 settembre, e meno che mai condivise il sogno di un califfato teocratico mondiale, che Bin Laden coltivava. Le sommosse arabe lo hanno ucciso prima degli americani, con le proprie forze e i propri martiri: in Tunisia, Egitto, Yemen, Siria, Marocco, Libia. Le piazze non si sono risvegliate grazie a lui, per il semplice motivo che Bin Laden non aveva scommesso sul loro risveglio ma sul loro sonno, e il più delle volte sulla loro morte (Al Qaeda ha ucciso più musulmani che non-musulmani, secondo uno studio pubblicato nel dicembre 2009 dal Combating Terrorism Center di West Point).
La seconda verità è strettamente connessa alla prima, e concerne le guerre americane ed europee posteriori all´11 settembre. Terrorismo e guerre imperiali al terrore sono stati in tutti questi anni fratelli gemelli, e insieme barcollano. Si sono nutriti a vicenda, fino ad assomigliarsi. La guerra al terrore che oggi vince una delle sue battaglie è la stessa che ha prodotto Guantanamo e Abu Ghraib: le prigioni senza processi, la tortura banalizzata. Una volta abbattute le frontiere del possibile, scrive Clausewitz, è difficilissimo rialzarle: e infatti Obama non ha avuto la forza di chiudere Guantanamo. Forse non ha neppure rinunciato alla tortura, come ha lasciato intendere il portavoce del dipartimento di Stato Philip Crowley prima di dimettersi, il 13 marzo scorso. Lunedì, alla Bbc, Crowley non ha escluso che sia stata usata la tortura, per estrarre dai detenuti di Guantanamo informazioni sul rifugio di Bin Laden. Alla vigilia delle dimissioni aveva parlato di torture e maltrattamenti del soldato Manning (colpevole d´aver fornito documenti a WikiLeaks) inflitte nella prigione di Quantico in Virginia. Senza attendere il processo Obama ha detto, il 21 aprile: «Manning ha infranto la legge».
Fred Halliday, il compianto studioso del Medio Oriente, ha scritto nel 2004 che la nostra modernità ha al suo centro questa complicità fra terrorismo e esportazione della democrazia dall´esterno: «Ambedue hanno imposto con la forza le proprie politiche e le proprie visioni a popoli ritenuti incapaci di proteggere se stessi, proclamando le proprie virtù storiche mondiali, richiamandosi a progetti politici che solo loro hanno definito». Halliday concludeva: «Il terrorismo può essere sconfitto solo se quest´arroganza centrale (evidente nel colonialismo di ieri come nel terrorismo di oggi, ndr) viene superata» (Opendemocracy, 22-4-04).
Ambedue le violenze sui popoli (terrorismo e guerra al terrorismo) sono figlie di ideologie apocalittiche che della realtà non si curano. I popoli che dovevano esser «salvati» hanno dimostrato di voler vigilare su se stessi senza voce del Padrone. Anch´essi sono pronti a morire, ma senza glorificare la morte come i kamikaze. Senza quello che Unamuno chiamò, durante la guerra civile spagnola, il «grido necrofilo» di chi sceglieva come motto «Viva la muerte!». L´uccisione di Bin Laden è un´ennesima salvezza venuta da fuori, che chiude gli occhi.
Eppure è venuto il momento di aprire gli occhi, anche per gli europei che usano seguire l´America senza discutere. Di capire come mai la potenza Usa ha attratto su di sé tanto odio. Quel che è perverso nell´odio, infatti, è che esso nasconde sempre una dipendenza, una segreta ammirazione, un bisogno dell´altro, idolo o Satana. La guerra al terrorismo non comincia l´11 settembre 2011, così come la prima guerra mondiale non comincia con lo sparo a Sarajevo. Comincia nella guerra fredda, quando Washington decide di combattere l´espansione sovietica con ogni mezzo: aiutando regimi autoritari, e anche finanziando e aizzando il radicalismo islamico in Afghanistan.
Non dimentichiamolo, mentre ascoltiamo Obama che annuncia di aver voluto «consegnare Bin Laden alla giustizia» (bring to justice) nel preciso momento in cui invece lo faceva giustiziare. Durante la guerra sovietica in Afghanistan, Reagan chiamava i mujaheddin non jihadisti ma freedom fighters, combattenti per la libertà. Eppure si sapeva che erano terroristi e basta. In un´intervista al Nouvel Observateur, il 15-1-98, il consigliere per la sicurezza di Carter, Brzezinski, racconta come Washington aiutò i jihadisti contro il governo prosovietico di Kabul, nel luglio ´79, sei mesi prima che l´Urss intervenisse. L´intervento del Cremlino fu scientemente forzato «per infliggergli un Vietnam» politico-militare. Brzezinski non rimpiange l´aiuto ai futuri terroristi, e al giornalista esterrefatto replica: «Cos´ha più peso nella storia del mondo? I Taliban o il collasso dell´impero sovietico? Qualche esagitato musulmano o la liberazione dell´Europa centrale e la fine della guerra fredda?».
Sono dichiarazioni simili a creare sconcerto, vertigine. Tanti morti – a New York, Madrid, Londra, e in Tanzania, Kenya, Indonesia, India, Pakistan – quanto pesano, nei Grandi Disegni delle potenze? Valgono l´esecuzione d´un sol uomo? Sono solo qualcosa di politicamente utile? Parole come quelle di Brzezinski erano ricorrenti nel comunismo: nelle democrazie sono veleno. E se così stanno le cose, perché ci hanno detto che la guerra contro qualche esagitato terrorista musulmano era la cruciale, l´infinita, la madre di tutte le guerre? Bin Laden era il mostro di Frankenstein che ci siamo fabbricati con le nostre mani: negli anni ´70-´80 pedina di vasti giochi euro-russi, nel XXI secolo nemico esistenziale.
I giovani protagonisti delle sommosse arabe chiedono ben altro: non un nemico esistenziale (lo hanno avuto per decenni: erano l´America e Israele), ma costituzioni pluraliste, leggi uguali per tutti, separazione dei poteri. Non è detto che riescano: il dispotismo li minaccia, cominciando da quello integralista. Ma per difenderci dal demone di Frankenstein non possiamo sperare che in loro.
La Repubblica 04.05.11
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“Ma l´America resta nel suo labirinto”, di LUCIO CARACCIOLO
La morte di Osama Bin Laden avrebbe dovuto idealmente coronare la vittoria degli Stati Uniti nella guerra al terrorismo. Rischia invece di marcarne un altro passo verso la sconfitta.
Perché l´eliminazione del Nemico numero uno, che scatena l´entusiasmo degli americani, sta rieccitando la diffidenza e l´odio nei confronti dell´”alleato” a stelle e strisce nel più strategico dei teatri bellici, quello afghano-pakistano. Il labirinto da cui disperatamente il presidente Barack Obama cerca di uscire da quando è entrato alla Casa Bianca. Ma che non lascia facilmente chi vi si avventura.
Più che aprire nuovi orizzonti, l´esecuzione di Osama simboleggia il fallimento dell´opzione bellica perseguita da George W. Bush nei primi sei anni della sua presidenza, e che Obama non è riuscito a correggere.
Di quella convinzione secondo cui all´11 settembre l´America non poteva rispondere che dispiegando la sua ineguagliata potenza militare per sradicare il Male e affermare l´Impero della Libertà (Jefferson). Per la prima volta nella storia la potenza dominante, invece che difendere il sistema internazionale sul quale era egemone, cercava di rovesciarlo. Rispondendo alla chiamata di Dio e aderendo alla “direzione della storia” (Bush, in vena hegeliana), che indica agli Stati Uniti la missione di eliminare la tirannia nel mondo.
Le campagne d´Afghanistan e d´Iraq erano solo le prime due tappe della redenzione dell´umanità.
La guerra non doveva solo smantellare le cellule del terrore, ma i regimi che le proteggevano. Nel caso, i taliban e – secondo Bush – Saddam. Grazie alla trionfale esibizione di forza tra Hindu Kush e Mesopotamia, si sarebbe prodotto un effetto domino per cui, nel tempo, i tiranni si sarebbero arresi uno dopo l´altro alla forza del Bene.
Dieci anni dopo, che cosa resta di tale visione?
Per azzardare un bilancio di questo lunghissimo decennio, occorre resistere alla tentazione di scavare dietro i misteri che hanno accompagnato la fine dell´architetto dell´11 settembre. Non sapremo mai tutta la verità sui fatidici minuti del raid di Abbottabad. E possiamo star certi che fra qualche secolo vi sarà chi giurerà che Osama Bin Laden non è mai morto, ma si nasconde da qualche parte fra Terra e Cielo in attesa dell´ultima ora.
Lasciamo i dietrologi alle loro esercitazioni, non perché non siano legittime, ma perché inutili. Peggio: devianti. Ci impediscono di guardare alla sostanza.
La valutazione strategica della guerra al terrorismo implica invece di rispondere a una domanda: che cos´era l´America il 10 settembre 2001, e che cos´è oggi?
Dieci anni fa l´America era la “superpotenza solitaria”. Vittoriosa nella guerra fredda e nelle due precedenti guerre mondiali. La prima economia, la primissima potenza militare, soprattutto la massima potenza soft. Termine con cui si intende la capacità di ottenere ciò che si vuole dagli altri soggetti della scena internazionale senza dover impiegare la forza. Qualcosa di simile alla gramsciana “egemonia”.
L´America oggi resta la prima economia. Quasi tutti gli esperti concordano però sul fatto che il sorpasso cinese sia questione di anni, non decenni (il che non vuol dire che accadrà, viste le normali performance degli esperti). Ma a differenza di dieci anni fa, gli Stati Uniti sono indebitati fino al collo, soprattutto con la Cina. Quanto può essere dominante una potenza il cui massimo creditore è anche il suo concorrente principe?
Una delle radici del debito Usa sta nella sovraesposizione militare. I costi della guerra al terrore avvicinano secondo il Congresso i 1.300 miliardi di dollari, ma è una stima conservativa. Le campagne di Bush e di Obama sono state finanziate da Pechino, che naturalmente è stata ben felice di farlo. Perché? Lo spiega Hillary Clinton: «Come fai a essere duro col tuo banchiere?».
In termini globali, è dunque la Cina ad aver vinto, per ora, la guerra al terrore. A spese dell´America e di noi altri occidentali. I rapporti di forza nel mondo sono espressi dal pauroso indebitamento dei dominatori del Novecento nei confronti dell´Asia riemergente.
Nel decennio della guerra al terrorismo, la Cina è tornata ad esprimere il 25% della crescita mondiale, quanto valeva a inizio Ottocento, prima di perdere il treno della rivoluzione industriale e di essere umiliata nelle guerre dell´oppio.
Le perdite più rilevanti nella guerra al terrorismo l´America le ha però subite quanto a potenza materiale (hard) e immateriale (soft). A che serve la strapotenza militare se non a vincere le guerre? Washington non riesce nemmeno a terminarle. E se pure gli Stati Uniti mantengono una formidabile capacità tecnologica – ma la Cina si avvicina anche in questo campo – e un´ammirevole produzione culturale, non sono più in grado di esercitare quel soft power un tempo incarnato nel “Washington Consensus”.
Certo sarebbe ingeneroso attribuire alla sovraesposizione imperiale di Bush la responsabilità unica del declino americano. Ma non c´è dubbio che per sfortuna del suo paese – e di noi europei occidentali, che della protezione a stelle e strisce abbiamo goduto per i migliori decenni della nostra modernità – quella Casa Bianca sia caduta nella trappola dei terroristi islamici. Esemplificata nel “messaggio al popolo americano” indirizzato nell´ottobre 2004, via Aljazeera, dallo stesso Osama: «E´ stato facile provocare quest´amministrazione e portarla là dove noi volevamo; ci basta mandare in Estremo Oriente due mujaheddin a sollevare una banderuola di al-Qaida perché i generali vi si affrettino, aumentando così le perdite umane, finanziarie e politiche (…). Abbiamo imparato a condurre la guerriglia e la guerra di logoramento contro le superpotenze inique. (…) La Casa Bianca e noi operiamo come una stessa squadra che ha come scopo di segnare punti contro l´economia americana, nonostante le intenzioni siano differenti».
Per Barack Obama, la morte di Osama Bin Laden ha un valore tutto simbolico. Deve approssimare la fine della guerra al terrorismo, termine che peraltro ha già messo in naftalina. Non riuscendo a finirla materialmente, Obama deve lavorare sull´immaginario. Se non può vincere, deve almeno convincere il suo pubblico di essere sulla buona strada per farlo e cominciare a riportare i ragazzi a casa. Per occuparsi delle faccende serie, dall´economia alla Cina (la stessa cosa).
Il problema è che il messaggio forse funziona con gli americani, molto meno con pakistani, afgani e altri musulmani. Se un giorno i terroristi islamici saranno definitivamente sconfitti lo dovremo dunque ai musulmani che in questi mesi dimostrano di rifiutare il nichilismo jihadista e i regimi che l´hanno sfruttato per spillare soldi e status all´America.
Gente di coraggio che noi, “guerra umanitaria” a parte, ci rifiutiamo di aiutare.
La Repubblica 04.05.11
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“Noi più sicuri ma meno innocenti”, di Nathan Englander
Ho trovato il telefono e il computer invasi di messaggi – racconta – e la mia prima reazione è stato il rammarico di non averlo saputo in diretta».
Che cosa ha provato?
«Delle emozioni contraddittorie. La sensazione che si fosse chiuso un ciclo, ma anche il timore che questa soluzione violenta possa generare altro sangue. Resisto quindi anche a definirmi felice: c´è certamente un pericolo in meno, ma c´è anche meno innocenza».
Cosa pensa di chi ha festeggiato?
«Anche in questo caso mi trovo di fronte ad emozioni opposte: in un primo momento non sapevo come giudicare la gente che scendeva per strada a gridare «Usa, Usa!», che si raccoglieva a Times Square o Ground Zero. Ma poi ho capito che era una celebrazione che nasceva in primo luogo dal dolore, e rispondeva ad una richiesta di giustizia. Ho ricordato lo sguardo di orrore e di dolore che ho visto in Israele quando c´erano degli attacchi terroristici e la volontà di reagire. I canti nelle strade di New York, le celebrazioni e anche i momenti più sguaiati rispondevano alla constatazione che era morto un nemico dello Stato».
A suo avviso l´esecuzione di Bin Laden è un atto di giustizia o di vendetta?
«È una riflessione che non può essere risolta con un giudizio semplicistico. Diciamo che era un atto inevitabile e atteso. Ed è difficile pensare che non sia stato anche giusto. Non dimentichiamo che parliamo di qualcuno che si è reso responsabile di migliaia di morti, di infiniti tormenti inflitti agli altri, e che se ne è anche rallegrato. Generando così odio e farneticazioni di ogni tipo».
Non avrebbe preferito un processo?
«Per alcuni versi sarebbe stato un atto di autentica forza e superiorità. Ma forse complicato, se non impossibile, da molti punti di vista. Io credo che sia stata una decisione estrema ma legittima da parte del presidente, che è anche il comandante in capo. La sua è una responsabilità che porta anche a scelte drammatiche. Personalmente sono un pacifista ed odio le armi, ma so che il mondo è sempre ingiusto: basta pensare a quanto è successo in Ruanda o nei Balcani. So anche che chi esige il rispetto civile deve conquistarlo, come deve conquistare il proprio ruolo nella società del mondo. La cultura e la tradizione americana sono semplici, siamo molto ancorati a gesti forti e simbolici. Quanto è successo ha avuto e avrà un impatto enorme. Inoltre, sul piano militare mi sembra che l´azione sia stata condotta in maniera impeccabile».
Cosa pensa delle teorie del complotto che si sono diffuse immediatamente?
«Tutto il male possibile. Sono teorie penose e imbarazzanti. Non riesco a credere che ci sia chi si ostina a negare i fatti, e ritiene di essere l´unico a sapere come siano andate veramente le cose. Questi atteggiamenti non meritano rispetto e abbassano a livello del fango argomenti seri e momenti importanti che riguardano tutti».
Nel suo discorso Obama ha parlato di una nazione indivisibile “sotto Dio”.
«Ho apprezzato molto che il presidente sottolineasse l´indivisibilità della nazione, attenuando le grandi differenze ideologiche e culturali del paese. Obama ha ben chiara la separazione tra Stato e Chiesa, e il riferimento così forte e diretto a Dio, ripetuto anche nella chiusura del discorso, è inseparabile dalla tradizione americana, ma è dovuto anche al suo credo intimo».
Si può affermare che per quanto riguarda l´eliminazione di Osama Bin Laden Obama ha portato a termine ciò che aveva avviato Bush?
«Non sono mai stato un fan di Bush, e cercherò di rispondere con distacco: da un punto di vista militare molti generali sono gli stessi, e alcune linee portanti sono analoghe, a cominciare dalla chiarezza dell´identificazione del nemico. Ritengo tuttavia che Obama abbia una credibilità che Bush non aveva, per la sua storia, per come ha conquistato – a differenza del predecessore – la presidenza, e anche per come ha saputo gestire l´eredità scomoda, giungendo a non rinnegare alcune scelte controverse. In questo ha creato molti delusi e nemici, ma ha dimostrato una statura autentica di leader».
Ritiene che l´America abbia sempre bisogno di un nemico?
«Mi auguro di no, è una posizione cinica e facile. L´America è prima di ogni cosa una promessa. Quanto è avvenuto in America dall´undici settembre in poi ha ispirato registi e scrittori meno di quanto è successo in Vietnam. È diverso per il cinema: ancora non sono arrivati capolavori come Il Cacciatore e Apocalypse Now, ma in letteratura abbiamo avuto i libri di Don De Lillo, Colum McCann e Jonathan Safran Foer, che affrontano il tema in maniera diversa e sempre avvincente. A differenza di quanto sento spesso, ritengo che non siamo troppo vicini, ma già troppo lontani: si tende già ad essere assuefatti. Io vorrei proporre di spostare il Memorial Day (la cerimonia in cui si ricordano i caduti in tutte le guerre, fissata il 30 maggio, ndt) dal lunedì al mercoledì per evitare il ponte: non si può onorare il ricordo di chi è morto andando in spiaggia».
La Repubblica 04.05.11
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