La “riforma Gelmini” dell’università ha acquistato una valenza politica che va ben oltre i suoi modesti contenuti. È vantata dal centro destra come prova della capacità di riforma del governo, della maggioranza e della minoranza di destra, mentre, a sinistra, è stata oggetto di proteste e critiche che sembravano ignorarne i contenuti specifici. A oltre due mesi dalla entrata in vigore della “riforma”, è forse il momento di esaminarne le conseguenze immediate, visto che gli effetti sul lungo periodo, sembrano incerti. Osserviamo prima di tutto che la nuova legge, come quasi tutti gli interventi legislativi sull’università degli ultimi quarant’anni, riguarda quasi solo il personale docente e non affronta i problemi del sistema universitario nei suoi rapporti con gli studenti e la società. È ignorato, in particolare, il problema degli abbandoni (in parte fisiologici) ed il più grave problema dei ritardi negli studi universitari. Non è una sorpresa. Negli anni settanta e ottanta erano i sindacati a promuovere “riforme” che, ovviamente, riguardavano le “categorie” da essi rappresentate. Oggi la “riforma” è stata promossa da alcuni professori-opinionisti, e ne riflette una visione del tutto autoreferenziale. Ma, infine, quali sono o saranno gli effetti immediati della legge sul sistema universitario? È presto detto: la legge obbligherà per qualche anno le università a spendere male i fondi loro assegnati ed il Ministero a distribuire male, tra le diverse sedi, il fondo di finanziamento. Vediamo perché. Prima dell’entrata in vigoredella legge il personale docente universitario era inquadrato in tre categorie o “fasce”: professori ordinari, professori associati e ricercatori di ruolo. La prima posizione permanente era quella di ricercatore, una figura nata più di trenta anni fa per sistemare i “precari” di allora, che si era però evoluta, anche per interventi legislativi, in un ruolo di docenti a tutti gli effetti. La legge Gelmini ha soppresso il ruolo dei ricercatori: non si possono più bandire concorsi per questo ruolo. La prima posizione permanente di docente sarà quella di professore associato. Ma gli attuali 25.000 ricercatori di ruolo in servizio non possono essere soppressi. Per essi, giustamente, la legge prevede una procedura, assolutamente non automatica, per la promozione a professore associato. Dovranno prima di tutto conseguire una “abilitazione al ruolo degli associati” che sarà conferita da una commissione nazionale, sulla base di un giudizio sulla produzione scientifica dei candidati. Successivamente dovranno essere “chiamati” dall’università.Tutto a posto quindi? Forse, ma solo sulla carta. Dobbiamo chiederci quanti ricercatori di ruolo conseguiranno l’abilitazione a professore associato. La mia stima è che il loro numero si collocherà tra 15.000 e 20.000 e la loro promozione impegnerà tutti i fondi disponibili al sistema universitario. Gli abilitati saranno tanti, perché la grande maggioranza dei ricercatori ha raggiunto e superato le qualificazioni scientifiche vantate dagli attuali professori associati. A che titolo si potrà sostenere che queste qualificazioni sono insufficienti? Del resto, le commissioni non hanno nessun incentivo ad essere severe. Se mai è vero il contrario: i settori e le aree che concederanno più abilitazioni avranno un numero maggiore di professori, e si rafforzeranno quindi all’interno delle sedi. Né sarà possibile per le università porre un argine alla promozione ad associato degli “abilitati”. Formalmente le università possono decidere come spendere i fondi a loro disposizione. Potrebbero ignorare le richieste di promozione dei loro ricercatori di ruolo “abilitati”, e destinare i fondi al reclutamento dei giovani, nei modi previsti dalla nuova legge. O potrebbero invece spendere tutto per la promozione di “abilitati”. Si tratta però di una scelta obbligata: i ricercatori di ruolo “abilitati” sono già presenti nell’università e bene in grado di esercitare pressioni anche come elettori del rettore e dei direttori di dipartimento. Essi avranno anche acquisito meriti accettando compiti didattici cui non erano ufficialmente tenuti. Non sarà possibile rifiutare la promozione a chi già svolge i compiti di un professore associato ed è stato dichiarato “abilitato” da una commissione nazionale. Molto più debole sarà la posizione del giovane che non è ancora nei ruoli ed aspira ad una posizione che gli consenta di entrarvi. Anche a livello nazionale ci saranno forti pressioni sul Ministero perché la ripartizione tra le sedi del fondo di finanziamento tenga conto del numero dei ricercatori “abilitati” presenti in ciascuna sede. Nel caso poi che i fondi disponibili per il sistema universitario non siano sufficienti per tutte le promozioni, è probabile che il problema sia risolto prolungando la validità temporale delle abilitazioni. Il blocco ai nuovi ingressi si protrarrebbe quindi per un numero maggiore di anni. Oltre a bloccare i nuovi ingressi si perderà anche l’occasione di ridistribuire sulla base delle esigenze didattiche, i fondi provenienti dal massiccio pensionamento in atto. I fondi andranno alle sedi, e ai settori, che vanteranno il maggior numero di ricercatori in attesa di promozione. Uno strano risultato per una legge che, fin dal titolo, si propone di “incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario”.
Il Riformista 04.05.11
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