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Oltre la crisi. La vera sfida: tornare al futuro", di Alfredo Reichlin

Ai danni del berlusconismo si aggiungono quelli di una involuzione economica e sociale che ha investito l’intero pianeta. Il Pd deve proporre una nuova visione politica. Nel mondo è in atto una rivoluzione conservatrice senza precedenti. Un partito riformista come il Pd ha il compito di affrontarla comunicando con chiarezza alternative e valori. La politica, se vuole tornare a mordere, deve raccontare ai cittadini, specie i più giovani, quello che sta accadendo nel mondo
Lo sapevamo, ma è davvero tremenda questa lunga agonia del “Cavaliere”. Assediato da eventi che non è più in grado di dominare, quest’uomo si difende bruciando i raccolti e avvelenando i pozzi. Il problema politico anche per evitare lo sfascio della compagine nazionale è quello di ridare al Paese fiducia e guida. Una guida non soltanto politica, intellettuale e morale. Essere noi la forza costituente capace di porre su nuove basi il futuro della nazione italiana.
A me sembra che, finalmente, questa strada maestra il Partito democratico l’abbia imboccata. E a questo punto è la realtà nella sua terribile asprezza che rende ridicola la chiacchiera politica sulle alleanze. Noi a chi dobbiamo parlare se non all’insieme del popolo italiano? Il popolo italiano non è una accozzaglia di individui che si definisce in base alle sigle di partito o alle “facce” che si esibiscono in Tv. È un popolo, il quale sente tutta l’incertezza del suo futuro. Ecco perché per dirigerlo bisogna dire bene chi siamo e se l’Italia di domani ha ancora bisogno di una sinistra, e quale.
L’impresa non è facile perché i partiti non si inventano. Sono vitali e contano se sono storicamente necessari, se “fanno storia”, se è chiara la loro funzione nella vita nazionale. Bisogna rispondere, quindi, ad un interrogativo cruciale. Qual è oggi la nostra “funzione”? A fronte di quale grande problema di riforma esso si pone come necessario? Certo la risposta deve partire dall’Italia e, come da anni qualcuno di noi va dicendo e scrivendo, si tratta di creare uno strumento capace di affrontare quella che non è una crisi come tante altre, ma un rischio di dissoluzione della nazione italiana. L’Italia non è un’isola e la sfida che si pone davanti è un enorme e inedito problema sociale e umano. Vogliamo davvero un partito “a vocazione maggioritaria”? Bisogna allora sapere (questo a me sembra il cuore della discussione) che un programma riformista moderno non esiste, non morde se non ha il coraggio di misurarsi con quella profonda rivoluzione conservatrice che domina il mondo da trent’anni.
Non scopro nulla, dico una ovvietà. Ma la ripeto perché forse non ci siamo ancora capiti bene sulla natura di quella svolta. Domandiamoci perché la politica non morde. Solo per insipienza oppure perché si tratta di qualcosa che configura i termini di un nuovo conflitto? Un conflitto di portata storica tra le forze del progresso e quelle della reazione, e un conflitto tale che ridefinisce anche i soggetti, noi compresi. È per questo che il Paese si chiede chi siamo ed esita a riconoscerci come alternativa. Perché insieme alla più gigantesca redistribuzione della ricchezza tra i continenti e dentro i continenti questo conflitto ha investito la vita, le libertà, il destino, il tessuto della società europea. Ha rotto il compromesso tra capitalismo e democrazia, ha posto fine al “cittadino” riducendolo alla misura del consumatore, ha contrapposto l’individuo alla società. In definitiva è questo fenomeno grandioso di portata mondiale che ha creato l’antipolitica, ha scavato questo solco tra i partiti e la gente e che ha reso la sinistra impotente, dato lo squilibrio sempre più profondo tra la potenza dell’economia finanziaria e il potere della politica, cioè la possibilità degli uomini di decidere del loro destino.
Sono solo accenni per dire una cosa su cui non so quanti concordano. Non si tratta di una delle tante modificazioni del capitalismo. È una sfida senza precedenti ai fondamenti storici del compromesso sociale, e quello scambio tra guadagno personale e diritti sociali, tra capitale e lavoro su cui si è retta la moderna società capitalistica e la cosiddetta economia sociale di mercato. Non credo di esagerare. Quando le attività finanziarie (cioè la speculazione in borsa e le scommesse su titoli incartati su altri titoli) sono arrivate a superare di tre/quattro volte le attività reali, e quando sulla spalle dei produttori della ricchezza reale (produzione non significa solo produzione di oggetti ma di creatività umana e della complessità del tessuto sociale) grava l’onere di remunerare una rendita enorme e parassitaria, non possiamo non chiederci, non solo su quali basi reali, ma su quale legittimazione etica si regge la società di oggi. Io penso che questo sia il passaggio nuovo. È etico-politico, non soltanto economico. E anche certi economisti dovrebbero ricordare che dopotutto l’economia è un rapporto tra uomini, non tra cose. Enormi ricchezze si creano sul debito, cioè giocando su risorse inesistenti. Ma chi paga i debiti? Quei debiti non sono pagati da chi li ha fatti ma dal denaro pubblico e dal “valore aggiunto” creato dal lavoro. Ovunque il debito privato si trasforma in debito pubblico. Ma allora di che riforme parliamo? Quale nuovo compromesso sociale è pensabile (prima il risanamento e poi lo sviluppo) quando il sistema finanziario sottrae il risparmio alla produzione di quei beni pubblici (formazione, capitale umano) i quali rendono poco nell’immediato ma senza i quali non esisterà mai lo sviluppo? Aumenterà solo l’ingiustizia. Ecco perché il riformismo è di fronte a una cosa diversa dall’economia sociale di mercato, ovvero dalle civiltà che ha avuto come centro l’Europa, cioè un luogo dove il comando della società e della vita umana non dipendeva solo da una oligarchia del denaro fatto col denaro, ma anche dal genio e dalla libertà dell’imprenditore, dal sindacato, dallo Stato, da movimenti ideali e culturali.
Ci sono alternative? Questa è la domanda che mi assilla. Dico alternative concrete, democratiche non il sogno di una rivolta disperata. Io credo che la risposta stia in una dimensione nuova della politica. Penso che dovremmo liberarci dei fantasmi di un modello che in realtà non può più funzionare: l’idea di una società guidata dall’alto. La politica nel mondo di oggi richiede un protagonismo nuovo delle masse. E quindi non solo un programma concreto, ma una rivoluzione intellettuale e morale che parli ai giovani di problemi di questa natura, che poi sono quelli che creano il precariato e oscurano il loro futuro. Il messaggio da mandare ad essi è semplicissimo: riappropriatevi delle vostre vite.
Ecco, io vedo qui un campo enorme di iniziativa di un nuovo partito. Un campo molto vasto perché si rivolge, non solo ad una parte, ma all’intera società. E non a parole, in quanto si pone il problema di coniugare le ragioni della libertà individuale con quelle della comunità. Costruire una nuova comunità umana: questo è il nostro compito, non “solo” costruire un nuovo Stato. Chi difende l’individuo senza storia e senza diritti uguali non capisce che gli uomini non esistono se non in quanto stanno dentro una storia e un legame sociale. Spetta a noi lottare perché essi tornino ad essere persona e ad appropriarsi delle loro vite. Questo è il riformismo. È anche un nuovo linguaggio, meno politicistico e meno economicistico. Del resto che cosa è stato nella storia l’atto di nascita del Riformismo se non la costruzione di una vasta rete sociale di solidarietà, di cooperazione, di lavoro collettivo, ad opera di socialisti come di cattolici? In tutt’altri termini, in tutt’altra scala, anche oggi questo è riformare. È rendere possibile un nuovo umanesimo. Ecco perché io penso che la presenza cattolica sia parte costitutiva del Partito democratico: perché sta nelle cose e nella lotta di oggi la necessità profonda di riunire l’umanesimo cristiano con la lotta per l’emancipazione dell’uomo che fu propria della tradizione socialista.
Vorrei quindi fosse chiaro che il tema che sollevo è qualcosa di molto diverso dall’idea di un classico spostamento a sinistra oppure del ritorno al vecchio scontro sociale. È invece quello di capire meglio il rapporto sempre più stretto, sempre più complesso (questo è il punto) nel mondo moderno tra una economia sempre più dominata dal bisogno di nuovi beni e di un più qualificato capitale sociale e un potere finanziario che in pratica lo nega. È decrepita la vecchia contrapposizione cara ai “liberal” tra Stato e Mercato, è diventata anche poco significativa la vecchia contrapposizione socialista tra profitto e salario. Lo sfruttamento è ben altro: riguarda il lavoro ma investe la condizione umana, la vita, i modi di pensare, i territori. Io credo stia qui il ruolo storico e la base sociale di un partito nuovo. Ed è questo che comincia ad emergere dalle cose.

L’Unità 03.05.11

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