I deputati PD in commissione Cultura e Istruzione presentano il parere alternativo al Documento Economia e Finanza, contestando la scelta del governo, unica in Europa, di ridurre l’investimento pubblico nella filiera del sapere.
I parlamentari PD della VII Commissione della Camera dei Deputati hanno presentato il parere alternativo al Documento Economia e Finanza (DEF) del Governo. Il parere, firmato dalla capogruppo in commissione Manuela Ghizzoni, dal presidente del Forum Istruzione Giovanni Bachelet e da tutti gli altri deputati democratici, è un’accusa impietosa nei confronti del governo che “sin dall’inizio della legislatura, non solo non ha affrontato i problemi cronici del sistema formativo italiano, ma li ha addirittura aggravati”. Il Piano nazionale delle Riforme (PNR), inserito nel DEF, non ha un impianto strategico ed è una sorta di “cornice del nulla”, e appare “significativa quanto irresponsabile” la scelta di riduzione dell’investimento pubblico fatta dal governo -unica in Europa- nella filiera del sapere.
Ecco il testo completo del documento:
PARERE ALTERNATIVO, presentato dai deputati Ghizzoni, Bachelet, Coscia, De Biasi, De Pasquale, De Torre, Levi, Lolli, Mazzarella, Melandri, Nicolais, Pes, Rossa, Russo, Siragusa
La 7a Commissione permanente della Camera dei Deputati, esaminato per le parti di propria competenza il Documento di economia e finanza 2011,
premesso che,
nello spirito della Nuova Strategia Europa 2020 (EU2020), la Commissione europea ha previsto un coordinamento strategico dei diversi momenti di definizione programmatica per i Paesi membri attraverso l’introduzione del c.d. “Semestre europeo” che ha inizio ad aprile di ogni anno, con la presentazione contestuale dei Piani nazionali di riforma (PNR) e dei Programmi di stabilità (PS);
il nuovo PNR, documento che assume un ruolo fondamentale in questo processo, deve contenere i seguenti elementi: lo scenario macro-economico, come definito nel PS; l’analisi degli squilibri macroeconomici nazionali e l’identificazione degli ostacoli principali alla crescita e all’aumento dell’occupazione; le misure strategiche di riforma da adottare per il raggiungimento degli obiettivi nazionali di crescita produttiva e occupazionale;
la legge 196/2009 incardina la discussione del PNR, all’interno di quella più generale del DEF;
nella fase transitoria, in sede di predisposizione della bozza di PNR, da presentare alla Commissione entro il 12 novembre, il Governo ha trasmesso il documento alle Camere a ridosso della data in cui si chiedeva la conclusione della discussione, limitando fortemente la possibilità del Parlamento di procede ad una ampia disamina del testo;
nell’Analisi annuale della crescita, la Commissione ha evidenziato che molti progetti di PNR indicano tra le proposte previste dagli Stati membri per raggiungere gli obiettivi nazionali, misure già attuate o a uno stadio piuttosto avanzato, oppure alquanto vaghe, con poche precisazioni circa la natura esatta delle norme, il calendario di attuazione, l’impatto previsto, il rischio di applicazione parziale o di insuccesso, il costo per il bilancio e l’uso dei Fondi strutturali dell’UE;
considerato che:
anche nella versione definitiva, il PNR appare vago, di difficile lettura, spesso ripetitivo e scevro di un impianto strategico, di impegni dettagliati e di scadenze precise. Una “cornice del nulla” come è stato efficacemente definito, in cui si contano complessivamente misure programmatiche di cui alcune sono semplici piani, altre titoli vuoti, altre ancora passibili di un iter lunghissimo o di difficile realizzazione;
se dalle enunciazioni teoriche del PNR si passa ai dati macroeconomici e di finanza pubblica del Programma di stabilità, si rileva che nel prossimo triennio la crescita è rivista al ribasso rispetto alla DFP del settembre 2010 ed è stimata all’1,1 per cento per il 2011, all’1,3 per cento per il 2012 e all’1,5 per cento per il 2013;
nonostante la revisione delle stime della crescita, il Governo mantiene invariati i saldi di finanza pubblica in termini tendenziali: l’indebitamento netto è confermato al 3,9 per cento per il 2011 e al 2,7 per cento per il 2012, come nella DFP;
se non si affronta il problema della crescita, non solo gli investimenti pubblici continueranno a diminuire (da 48,6 miliardi di euro nel 2011 a 45,9 miliardi nel 2014) e la pressione fiscale rimarrà invariata (42,5 per cento nel primo e nell’ultimo anno del quadriennio) ma per consentire il rispetto degli obiettivi europei sarà necessaria anche una manovra correttiva per il 2,3 per cento del PIL (oltre 35 miliardi di euro), come anticipato dal DEF, per il biennio 2013/2014;
poiché il riequilibrio duraturo dei conti pubblici passa soprattutto per il rafforzamento del potenziale di sviluppo dell’economia, sarebbe stata necessaria l’individuazione di misure strategiche precise anziché una poco convincente politica dei due tempi che, senza garantire la riduzione del debito (per la quale la Banca d’Italia considera necessario un PIL del 2 per cento annuo), rimanda sine die il problema della crescita;
valutato che, per le parti di competenza
al fine di promuovere una crescita intelligente, inclusiva e sostenibile, come chiesto da Europa 2020 a tutti gli stati membri, è necessario dimezzare il tasso di dispersione scolastica e triplicare il numero di laureati, investendo sui saperi e scommettendo sulla qualità del capitale umano e su una società della conoscenza diffusa;
il recente rapporto Ocse 2010 evidenzia come gli investimenti in istruzione dei paesi membri siano cresciuti fortemente negli ultimi anni, ma l’Italia resta ben al disotto della media, pari al 5,7% del PIL, con il 4,5 % del PIL investito nel 2007. Eppure è dimostrato che, oltre ai benefici in termini di promozione umana, coesione sociale e integrazione, trasmissione dei principi che fondano la convivenza civile, la maggiore spesa per istruzione produce rendimenti economici certi, maggiore occupabilità per gli interessati, maggiore capacità innovativa dell’economia e possibilità di specializzarsi in settori a più alto valore aggiunto;
con riferimento a tale parametro di spesa (valutato rispetto all’andamento del PIL), il Documento in esame (Tavola V.1, Sezione Prima) prevede un preoccupante calo, dal 4,2 del 2010 (già in netta flessione rispetto al dato del 2007) al 3,7 del 2015 e al 3,2 del 2030. Questa significativa quanto irresponsabile scelta di riduzione dell’investimento pubblico – unica in Europa – nella filiera del sapere è ricondotta dal Governo “all’effetto delle misure di contenimento della spesa per il personale, a cui segue un andamento gradualmente crescente nel trentennio successivo dovuto alla riduzione strutturale della popolazione scolastica”. In altre parole, il Governo attribuisce tale curva discendente degli investimenti in istruzione alla riduzione degli organici che, sebbene previsti dall’art. 64 del DL 112/2008 per il periodo 2009-2012, determinerebbero il loro effetto oltre il quadriennio definito. In realtà, la Tavola VI.1 della Sezione I del Documento (effetti sulla spesa pubblica del DL 78/2010, convertito nella L. 122/2010) dimostra come il ridimensionamento strutturale della spesa per l’istruzione sia dovuto anche alla eliminazione dell’adeguamento automatico delle retribuzioni del personale della scuola negli anni 2011-2013 e seguenti (si tratta di risparmi per: 320 milioni nel 2011, 640 nel 2012 e 960 nel 2013). A tale proposito, trova pertanto conferma quanto denunciato dal gruppo PD in occasione della discussione della legge di stabilità e negato dal Governo: lo slittamento triennale della “carriera” per oltre un milione di dipendenti della scuola, prevista dal comma 23 dell’art.9 della legge 122/2010 (“…gli anni 2010, 2011 e 2012 non sono utili ai fini della maturazione delle posizioni stipendiali e dei relativi incrementi economici previsti dalle disposizioni contrattuali vigenti”), ha pieno valore giuridico e determina effetti lungo tutta la carriera, nonostante il “recupero” economico degli scatti del triennio 2011-2013 attraverso i “risparmi” determinati dall’applicazione dell’art. 64 del DL 112/2008;
la prevista quota di PIL investita in futuro in istruzione non potrà consentire un innalzamento della qualità del sistema e soprattutto non potrà incorporare le risorse per un incremento retributivo, nonostante ad oggi gli stipendi del personale scolastico siano inferiori a quelli dei colleghi europei e sebbene tale questione sia ben nota al ministro Gelmini, che la citò tra le priorità da affrontare nella propria relazione di inizio mandato;
con specifico riguardo alla valorizzazione del capitale umano, le valutazioni del Governo riportate nel documento in esame, che collocano la riforma della scuola e dell’università come interventi strutturali coerenti con gli obiettivi europei, appaiono, a fronte dei dati riportati, più ottimistiche della realtà, invece, drammatica;
è necessario ricordare che il Governo, sin dall’inizio della legislatura, non solo non ha affrontato i problemi cronici del sistema formativo italiano, ma li ha addirittura aggravati: infliggendo 8 miliardi di tagli all’istruzione; sottraendo 132.000 posti di insegnanti e personale ATA; approvando una legge di riordino dell’università che non ha previsto risorse adeguate e che affida i propri effetti ad un numero eccessivo di decreti attuativi e regolamenti, determinando mesi, se non anni, di blocco formativo professionale dei giovani studiosi, poiché di fatto non sarà possibile attivare i dottorati di ricerca, gli assegni di ricerca, i contratti da ricercatore a tempo determinato e indeterminato;
nel Documento in esame il Governo menziona il sistema nazionale di valutazione come struttura funzionale al miglioramento della qualità dell’insegnamento e dello sviluppo dell’autonomia scolastica. Tuttavia, disattendendo l’ordine del giorno del Partito Democratico sulla manovra finanziaria dell’estate 2010, non rende certe nel tempo le risorse a disposizione di INVALSI e ANSAS (o delle loro evoluzioni istituzionali) e non consente quindi adeguata programmazione di ispezioni, indagini, ricerche, interventi di sostegno alle autonomie scolastiche e altri incentivi per il miglioramento del sistema di istruzione nazionale. Il 30% dei tagli della legge 133/08 inizialmente destinati a questo scopo sono infatti dirottati per coprire impropriamente gli scatti stipendiali perduti a causa della manovra e non appaiono altre voci o dotazioni specifiche;
in riferimento agli interventi finalizzati alla riduzione della dispersione scolastica (uno dei grandi ambiti di azione della strategia Europa 2020), il DEF rileva la volontà di raggiungere il modestissimo traguardo del 15-16% di coloro i quali lasciano prematuramente la scuola, a fronte dell’obiettivo del 10% fissato dall’Europa, mentre Polonia, Slovenia, Repubblica Ceca (con apprezzabile ambizione) si impegnano a scendere al 5%. Vale la pena ricordare che il modesto traguardo fissato dal nostro Paese nel Documento è molto inferiore a quello (10%) che l’Italia si è data, per le sole regioni del Mezzogiorno (in cui la situazione è peggiore), con il Quadro Strategico Nazionale per i fondi comunitari 2007-13. In altre parole, in questo fondamentale ambito di intervento, oltre a rinunciare a qualsiasi competizione virtuosa con gli altri paesi europei, riduciamo i nostri obiettivi rispetto a quanto noi stessi abbiamo convenuto solo quattro anni fa con l’Unione Europea. Siamo di fronte all’ennesima prova della inazione e della assenza di visione strategica del Governo rispetto alle politiche di coesione nazionali. Peraltro, lo scarso impegno del Governo è dimostrato dall’assenza di reali interventi quali, ad esempio, l’avvio di esperienze di continuità e raccordo curriculare che coincida con il passaggio dalla preadolescenza all’adolescenza, obiettivo che costituisce il punto di maggior sofferenza del sistema, ove si registra il tasso più alto di dispersione scolastica, con punte del 30%, soprattutto nel primo anno degli istituti professionali e tecnici oppure, l’opportunità di estendere le Anagrafi Regionali degli Studenti, oggi istituite solo in 11 regioni su 20;
altresì, il Documento cita il programma di potenziamento infrastrutturale dell’edilizia scolastica, nel quale si prevede la realizzazione di nuovi edifici scolastici e la ristrutturazione di quelli già esistenti, senza tuttavia indicare uno specifico e credibile piano di intervento adeguatamente finanziato. Tale assenza risulta foriera di dubbi e interrogativi, soprattutto in considerazione del fatto che due edifici scolastici su tre non sono a norma di legge e che l’Italia ha una delle percentuali più basse d’Europa di edifici scolastici dotati di certificato di abilità statica, il 46% contro, ad esempio, il 98% della Germania. Le previsioni del citato programma sono prive di qualsiasi concreto riferimento e omettono, perfino, di richiamare il destino dello stanziamento CIPE di 1 miliardo di euro finalizzato ad un piano straordinario di interventi, sul cui primo stralcio di 358 mln, al momento, non si riescono ad avere informazioni sullo stato di realizzazione. Ma il programma ignora altresì ogni riferimento al ruolo del federalismo fiscale, prospettando una modalità di intervento sull’edilizia scolastica che sottrae alle Regioni e agli enti locali ogni reale competenza in materia. Infine, il Governo non prevede alcun intervento che escluda le spese per l’edilizia scolastica dal patto di stabilità, nonostante gli impegni assunti con l’accoglimento di appositi ordini del giorno proposti dal Partito Democratico;
nel quadro delineato dal Governo riguardo alla valorizzazione dell’istruzione non emerge nessun intervento volto a risolvere il problema del precariato, anche alla luce della sentenza del tribunale di Genova, per la quale un’eventuale estensione degli effetti determinati dalla suddetta sentenza al personale della scuola a tempo determinato, che volesse intraprendere analoghe azioni legali, potrebbe comportare per lo Stato oneri da 4 a 6 miliardi di euro;
anche sull’integrazione e l’interculturalità l’intervento di politica scolastica indicata dal Documento non fa alcun riferimento ad interventi volti a favorire un rapido ed equilibrato inserimento degli alunni stranieri, quali, ad esempio, la didattica supplementare dell’italiano come lingua straniera;
il Documento, poi, ignora qualsiasi riferimento al sistema educativo della prima infanzia sebbene in un paese civile dovrebbe essere prioritario poiché garantisce il diritto educativo di ogni bambino; ad esso dovrebbe essere raccordata una reale politica di conciliazione dei tempi dedicati al lavoro e all’attività di cura;
se le previsioni del documento fino ad ora commentate escludono investimenti strutturali per ridurre la dispersione scolastica, per migliorare l’edilizia scolastica, per aumentare gli stipendi degli insegnanti e le risorse per il diritto allo studio, l’atteggiamento del Governo – con improvvida cecità strategica – e altrettanto deficitario rispetto agli altri target di Europa 2020, riguardanti il numero dei laureati (26% contro 40%) e gli investimenti in ricerca e sviluppo (1,53% contro 3%). Per quanto riguarda la percentuale dei laureati, il nostro Paese, insieme alla Romania, si è posta l’obiettivo più basso: il 26-27%, mentre l’Europa punta al 40%; l’Irlanda al 60%; la Francia al 50%; la Polonia al 45%, la Spagna al 44%, la Bulgaria al 36%, la Grecia al 32%. Per quanto riguarda la spesa in ricerca e sviluppo rispetto al PIL, l’Europa si pone l’obiettivo del 3%, con paesi come Svezia e Finlandia che puntano al 4%, Francia, Germania, Spagna e Portogallo che ambiscono all’obiettivo comunitario del 3%, la Romania al 2% e la Polonia all’1,7%, mentre l’Italia si pone il misero traguardo dell’1,53% (insieme a Malta, Cipro e Slovacchia). A questo punto non si può non sottolineare, con preoccupazione, che i target nazionali della strategia Europa 2020 contenuti nel Piano Nazionale delle riforme (sezione III del DEF) puntano a posizionare il nostro Paese all’ultimo posto in quasi tutti gli ambiti, ma in particolare in quelli che attengono alla formazione e alla ricerca, con effetti deleteri per lo sviluppo economico e la crescita sociale;
per quanto riguarda il settore dell’università, il Documento in esame mette in rilievo la costituzione del “Fondo del merito” (previsto dall’articolo 4 della legge 30 dicembre, n. 240/2010), come contributo necessario al raggiungimento dell’obiettivo europeo dell’accrescimento del numero dei laureati; a tal proposito è doveroso ricordare che il suddetto Fondo, che peraltro non prevede una congiunta valutazione del merito di studio e delle condizioni di reddito del beneficiario, rimane “una scatola vuota”: non solo non è previsto alcuno stanziamento specifico per una finalità così importante, ma si dispone che il fondo sia alimentato da “versamenti effettuati a titolo spontaneo e solidale da privati, società, enti e fondazioni”, limitando l’apporto dei trasferimenti pubblici a “specifiche disposizioni”, peraltro non previste. La presumibile platea dei beneficiari e la aleatorietà finanziaria del suddetto Fondo non fanno prevedere niente di buono per il diritto allo studio;
tra le misure operative volte a promuovere e rafforzare l’università, il Documento ricorda gli incrementi per il Fondo ordinario per le università (FFO) di 800 milioni di euro per il 2011 e di 500 milioni di euro dal 2012, ma tralascia di chiarire che tali risorse compensano solo parzialmente i tagli operati. Infatti dopo l’incremento degli 800 milioni di cui sopra per l’anno in corso, il FFO registra ancora un segno meno di ben 276 milioni rispetto all’assestamento 2010, infatti, la legge di stabilità varata al Consiglio dei Ministri il 15 ottobre 2010 aveva previsto un taglio a tale fondo di un miliardo e 76 milioni di euro, determinati dalla decurtazione lineare di 126 milioni, dalla cancellazione dei 550 milioni del così detto fondo Padoa Schioppa – Mussi e dall’assenza dei 400 milioni recuperati nel 2010 attraverso lo scudo fiscale. Pertanto, l’enfatizzata integrazione del FFO non rappresenta una inversione di tendenza rispetto alla politica dei tagli né, a maggior ragione, può essere considerata la dimostrazione di un investimento serio ed efficace del Governo per lo sviluppo del sistema universitario del nostro Paese;
è, altresì, doveroso ricordare che il comma 24, articolo 1, della Legge 13 dicembre 2010, n. 220 (Legge di stabilità 2011), dispone che entro il 31 gennaio di ogni anno sia emanato un decreto interministeriale per l’approvazione di un piano straordinario per la chiamata di professori associati per ciascuno degli anni 2011-2016 a valere su quota parte delle risorse del fondo di finanziamento ordinario dell’università (a tal punto è intervenuto il comma 9, articolo 29 Legge 240 del 2010 che fissa detta quota in: non superiore a 13 milioni per l’anno 2011, 93 milioni per il 2012 e 173 a decorrere dal 2013) e che, ad oggi, trascorsi tre mesi rispetto al termine fissato, non risulta emanato nessun decreto interministeriale. Si tratta della conferma che la legge 240/2010 non garantisce purtroppo né interventi per la progressione carriera del personale universitario né tantomeno l’ingresso di nuovi e giovani professori;
valutato, altresì che:
il quadro delineato dal governo non accenna a nessun intervento finalizzato a rilanciare la cultura;
la curva della spesa pubblica italiana nel settore della cultura mostra un calo vertiginoso. L’abdicazione dal suo ruolo storico di capofila nell’innovazione e nel campo della creatività pone l’Italia in una posizione di pesante subalternità culturale rispetto ad altri paesi più lungimiranti. La Germania ha stanziato circa 12,5 miliardi di euro; la Francia per il 2011 ha assegnato al settore della cultura e dei media 7,5 miliardi di euro (con un aumento di circa 150 milioni di euro rispetto all’anno precedente) di cui 2,7 per la sola “missione” cultura. In Italia invece, alla catastrofica situazione dei fondi statali va aggiunto il taglio dei trasferimenti a regioni ed enti locali che penalizzerà molto il settore, se è vero che da anni questi ultimi investivano in cultura più dello Stato;
le nostre città, i nostri territori raccontano una storia di abbandono e incuria che, con sempre minori risorse umane e finanziarie, le strutture tecniche preposte alla tutela cercano di contrastare: il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione non sono oggi al sicuro e giorno dopo giorno pezzi di storia si sgretolano sotto il peso del tempo. Le attività culturali sono messe in ginocchio dalla mancanza di investimenti e di certezze che riducono le produzioni e rischiano di trasformare il nostro paese da grande centro di creatività e innovazione culturale a semplice luogo di circuitazione;
pur rilevando come necessaria la marcia indietro del Governo sugli insostenibili tagli al Fus, è, tuttavia, inaccettabile l’aumento dell’accisa sulla benzina per coprire tali misure
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