In teoria sono freelance, in pratica dipendenti senza alcuna tutela. Una ricerca della Cgil racconta il dramma dei lavoratori autonomi. il 25% guadagna meno di 10mila euro all’anno. Per entrare nel mondo del lavoro ci sono tre strade. La prima è quella standard: cercare un posto da dipendente, sempre più raro. La seconda, mettersi in proprio creando un business e trasformandosi in imprenditori, malgrado il sistema bancario non offra facilmente credito ai giovani senza la garanzia degli indispensabili, onnipresenti genitori. La terza è inserirsi nel mercato come “freelance”, offrendo le proprie competenze a chi ne abbia bisogno e sia disposto a pagarle. Per chi sceglie, o viene costretto a scegliere, quest’ultima strada – un elenco sterminato ed eterogeneo: dagli avvocati ai commercialisti , dai consulenti ai promotori, dagli architetti ai geometri, e poi ancora psicologi, musicisti, pubblicitari, traduttori, giornalisti… – si apre un futuro di autonomia, senza l’obbligo di timbrare il cartellino o di concordare le ferie, ma soprattutto di rischio, perchè il guadagno di ogni mese dipenderà da quanto i propri servizi saranno richiesti, quanto puntuali i pagamenti, quanto fedeli i clienti.
UN FUTURO oggi caratterizzato da grande incertezza e dal pericolo che il lavoro autonomo diventi uno altro bacino di precari: come conferma la ricerca “Professionisti: a quali condizioni?”, appena svolta dall’Ires – l’Istituto ricerche economiche e sociali – su un campione di quasi 4 mila persone.
Tra gli autonomi i ricercatori dell’Ires individuano tre sottoinsiemi: quelli a rischio di precarietà, i liberi professionisti con scarse tutele e quelli affermati. Peccato che nell’ultima fascia finisca solamente il 20 per cento degli intervistati, con una spiccata quanto ovvia prevalenza di maschi over 45, lasciando il restante 80 per cento in una situazione quantomeno difficile. Si legge nella premessa, curata dal responsabile professioni della Cgil Davide Imola, che in Italia esistono quasi 9 milioni di partite Iva, di cui 6 milioni e mezzo attive. Ogni anno se ne aprono 200 mila, e secondo l’Isfol quelle false, che mascherano cioè un lavoro subordinato, sono ben 400 mila. Le partite Iva rappresentano oltre due terzi del campione: la ricerca ne è quasi una radiografia, da cui emerge che nella maggior parte dei casi si è autonomi per forza o per esplicita richiesta del datore di lavoro. I freelance per scelta sono infatti meno della metà. Lavorano più dei subordinati, quasi nove ore al giorno, sono più sotto pressione e guadagnano troppo poco: uno su quattro porta a casa meno di 10mila euro all’anno.
LE PROSPETTIVE retributive si fanno via via più cupe a seconda del settore – i professionisti della cultura e dello spettacolo sono quelli messi peggio – e la soglia dei 30 mila euro, che significa almeno 2.500 euro al mese, viene superata solo dal 17,2 per cento dei professionisti. A questo si aggiunge una disparità nella relazione con i committenti: spesso la contrattazione non esiste, e o si accettano le condizioni proposte o si resta senza lavoro.
Altro punto dolente, il tempo incredibilmente lungo che si impiega per cominciare: si arriva alla professione a 28 anni e mezzo, dopo ben quattro anni di gavetta costellati di “fasi di studio, disoccupazione, praticantato, tirocini e stage”. E prima di riuscire a ottenere un compenso si lavora gratis in media quasi un anno: la gerontocrazia comincia proprio qui, quando centinaia di migliaia di giovani lavorano senza potersi però rendere indipendenti e autonomi.
Insomma in Italia la terza strada è accidentata da un canale d’ingresso troppo lungo e pieno di insidie, prospettive di guadagno deprimenti, costante necessità di essere aiutati dai genitori (oltre la metà degli intervistati ammette di ricevere aiuti), preoccupazione per un futuro previdenziale dai contorni fumosi (per uno su sette non è addirittura versato alcun contributo pensionistico), e un’altissima probabilità che il “professionista autonomo” lo sia per scelta di qualcun altro e non sua.
C’è dunque urgenza di un’azione forte non soltanto rispetto alla definizione di standard retributivi (i giornalisti sono in testa nel richiederli, e a ragione: alcune testate pagano vergognosamente meno di dieci euro per articolo) ma anche rispetto all’accesso, al welfare e alla pressione fiscale. Un’altra grande sfida che sindacati, ordini professionali e associazioni di categoria non possono più esitare a raccogliere.
da Il Fatto quotidiano 28.04.11