Quando Obama vinse le elezioni, nel 2008, furono molti a esser convinti che una grande trasformazione fosse possibile, che con lui avremmo cominciato a capire meglio, e ad affrontare, un malessere delle democrazie che non è solo economico. La convinzione era forte in America e in Europa, nelle sinistre e in numerosi liberali. La crisi finanziaria iniziata nel 2007 sembrava aver aperto gli occhi, preparandoli a riconoscere la verità: il capitalismo non falliva.
Ma uno scandaloso squilibrio si era creato lungo i decenni fra Stato e mercato. Il primo si era ristretto, il secondo si era dilatato nel più caotico e iniquo dei modi. Lo Stato ne usciva spezzato, screditato: da ricostruire, come dopo una guerra mondiale.
Le parole di Obama sulla convivenza tra culture e sulla riforma sanitaria annunciavano proprio questo: il ritorno dello Stato, nella qualità di riordinatore di un mercato impazzito, di garante di un bene pubblico minacciato da interessi privati lungamente dediti alla cultura dell´illegalità. Non era un´opinione ma un fatto: senza l´intervento degli Stati, le economie occidentali sarebbero precipitate. Un´economia non governata non è in grado di preservare lo Stato sociale riadattandolo, di tenere in piedi l´idea di un bene pubblico che tassa i cittadini in cambio di scuole, ospedali, trasporti, acqua, aria pulita, pensioni per tutti.
Quel che sta accadendo oggi non smentisce i fatti. Li occulta, li nega, con il risultato che i cittadini si sentono abbandonati, increduli, assetati di autorità che semplifichino le cose con la potenza del vituperio. Intervenendo per sanare il mercato, Stati e governi hanno adottato misure forse corrette ma il momento della verità l´hanno mancato, con il consenso delle opposizioni. Hanno mancato di dire che al mondo di ieri non torneremo, e che gli sforzi fatti oggi daranno frutti lentamente, perché lenta e lunga è stata la malattia capitalista. Di qui il dilagare di populismi di destra, in Europa e America, e la forza ipnotica che essi esercitano sulle opinioni pubbliche.
Prima ancora che la crisi finanziaria divenisse visibile fu l´Italia a negare i fatti, con Berlusconi e Lega. L´Italia è stato il laboratorio di forze che ovunque, oggi, sono in ascesa: in Belgio il Vlaams Belang (Interesse fiammingo), in Olanda il partito anti-islamico di Geert Wilders, in Ungheria il Fidesz, in Francia il Fronte di Marine Le Pen, in Finlandia i Veri Finlandesi.
Il rifiuto dello straniero, la designazione dell´Islam come capro espiatorio, la chiusura delle frontiere mentali prima ancora che geografiche: i populismi odierni si riconoscono in tutto questo ma la xenofobia non è tutto, non spiega la natura profonda della loro seduzione. All´origine c´è una volontà ripetitiva, sistematica, di non sapere, non vedere la Grande Trasformazione in cui stiamo entrando comunque. C´è una strategia dell´ignoranza, come sostiene il professore di linguistica Robin Lakoff, un desiderio di fermare il tempo: «L´attrattiva dei populisti scaturisce da un affastellarsi di ignoranze: ignoranza della Costituzione, ignoranza dei benefici che nascono dall´unirsi in sindacato, ignoranza della scienza nel mondo moderno, ignoranza della propria ignoranza» (Huffington Post, 30 marzo 2011).
Il vero nemico dei nuovi populismi è la democrazia parlamentare, con il suo Stato sociale e la sua stampa indipendente. Di qui le incongrue ma efficaci offensive antistataliste contro Obama, nel preciso momento in cui l´economia ha più bisogno dello Stato. Di qui il diffuso fastidio per la stampa indipendente, quando più ci sarebbe bisogno di cittadini responsabili, quindi bene informati. A tutti costoro i populisti regalano illusioni, cioè il veleno stesso che quattro anni fa generò la crisi. Ai drogati si restituisce la droga. Cos´è d´altronde l´illusione, se non un gioco (un ludus) che dissolve la realtà nelle barzellette sconce quotidianamente distillate dal capo? Cos´è il fastidio per la stampa indipendente, se non strategia che azzera la conoscenza dei fatti? Meglio una barzelletta del potente che una notizia vera sul potente.
L´Italia è all´avanguardia anche in questo campo: la concentrazione dell´informazione televisiva nelle mani di uno solo è strumento principe dell´ignoranza militante, e distraente. In Ungheria l´odio per la stampa impregna il partito del premier Viktor Orbán: le nuove leggi varate dal governo prevedono un´autorità di controllo sui mezzi di comunicazione, composta di cinque esponenti nominati dal partito di maggioranza. All´autorità spetta di verificare se la stampa è «equilibrata e oggettiva», di decidere multe o chiusure di giornali o programmi tv, di imporre ai giornalisti la rivelazione delle fonti se sono in gioco «la sicurezza nazionale e l´ordine pubblico».
Anche lo straniero come capro espiatorio è gioco d´illusione, feroce, con la realtà multietnica in cui già da tempo viviamo. Il fenomeno non è nuovo. Negli anni ´20-´30, la Germania pre-nazista esaltò il Blut und Boden, il sangue e la terra, come fonte di legittimazione politica ben più forte della democrazia. Oggi lo slogan è imbellito – si parla di radicamento territoriale, davanti a una sinistra intimidita e plaudente – ma la sostanza non cambia. La brama di radici, ancora una volta, impedisce il camminare dell´uomo e lo sguardo oltre la propria persona, il proprio recinto. Consanguineità e territorio divengono fonti di legittimazione più forti della Resistenza.
Helsinki ladrona, Roma ladrona, Washington ladrona: si capisce da questo slogan (lo stesso in Finlandia, Italia, America) come l´anti-statalismo sia centrale. Come la xenofobia sia il sintomo più che la causa del male. Vedendo che la crisi perdura, le popolazioni hanno cominciato a nutrire un´avversione radicale verso l´idea stessa di uno spazio pubblico dove la collettività, tassandosi, difende i più deboli, i più esposti. I populisti non temono di contraddirsi, anzi. D´un sol fiato si dicono antistatalisti e promettono uno Stato controllore, tutore dell´etnia pura, normalizzatore delle coscienze e delle conoscenze.
I sondaggi sul successo del Tea Party, il movimento neoliberista Usa, lo confermano. La molla decisiva non è il razzismo: è il rigetto della riforma sanitaria di Obama, del principio dell´etica pubblica. L´etica pubblica mette tutti davanti alla stessa legge, perché nessun interesse privato abbia la meglio. Lo Stato etico dei populisti impone il volere del più forte: Chiesa, lobby, etnia. Lo chiamano valore supremo, non negoziabile. In realtà è puro volere: suprema volontà di potenza.
Come mai le cose sono andate così? Come mai Obama può perdere le elezioni? In parte perché i governi hanno sottovalutato l´enorme forza del risentimento. In parte perché non hanno spiegato quel che significa, nel mondo globalizzato, salvare il bene pubblico. Ma è soprattutto la verità che hanno mancato: sono quattro anni che descrivono la crisi come superabile presto, il tempo d´arrivare alle prossime elezioni. Obama stesso ha omesso di spiegarla nella sua lunga durata: come qualcosa che trasformerà le senescenti società occidentali, che le obbligherà a crescere meno e integrare giovani immigrati, se non vorranno scaricare i propri anziani come il vecchio capofamiglia sulla sedia a rotelle che i nazisti gettano dalla finestra nel Pianista di Polanski. Per paura elettorale i governanti celano la verità, e ora pagano il prezzo.
Anche l´Europa ha la sua parte di colpe. Gli strumenti li avrebbe: può usare l´articolo 7 del Trattato di Lisbona, contro le infrazioni antidemocratiche in Italia o Ungheria. Può costruire una politica dell´immigrazione, avendone ormai la competenza. Se non lo fa, è perché non guarda ad altro che ai parametri economici. Perché è indifferente all´ethos pubblico. Perché quando esercita un potere, subito se ne pente. Perché dimentica che anch´essa è nata nella Resistenza.
Nel momento in cui la sua fonte di legittimazione politica è usurpata (al posto della Resistenza: il radicamento territoriale) l´Europa ammutolisce. Ha vergogna perfino delle cose non sbagliate che ha fatto: del comportamento che ebbe nel 2000, ad esempio, quando i neofascisti di Haider divennero determinanti nelle elezioni austriache del ´99. Non mancarono certo gli errori: troppo presto si usò l´arma ultima delle sanzioni, presto abbandonate. Ma anche se disordinatamente, l´Unione almeno reagì, s´inalberò. L´Austria fu costretta a riaprire ferite tenute nascoste, a discutere colpe sempre negate, e il suo volto cambiò. Se l´Unione è così invisa ai populismi vuol dire che potrebbe far molto, se solo lo volesse.
La Repubblica 27.04.11