C´è qualcosa di grottesco, ma anche di terribile, nella proposta di legge che alcuni parlamentari di destra hanno firmato, sull´imparzialità dei testi scolastici. Davvero sembra che quella dell´imparzialità dei libri di storia, e dei “professori di sinistra”, sia un´ossessione non solo della maggioranza, ma anche del governo: infatti, quello dell´imparzialità è per il ministro dell´Istruzione un problema reale.
Non si può rispondere nel merito agli “esempi di faziosità” che appaiono nella presentazione della proposta. Anzi, si deve rifiutare proprio questo terreno. Per alcuni motivi che alla destra sfuggono, e che vanno ricordati. In primo luogo, la storiografia non è imparziale: tale potrebbe essere solo una cronaca assolutamente puntigliosa, infinita. E, naturalmente, inutile e insensata. La storiografia è invece ricerca mirata, orientata da qualche problema e da qualche valore; è interpretazione. Il che non vuol dire che possa essere delirante, faziosa, folle; anzi, deve essere coerente, logica, revisionabile, falsificabile da nuove prove, da nuove interpretazioni di altri studiosi. In questo rischio di confutazione, in questo dialogo, anche aspro, ma aperto e pubblico, consiste il metodo scientifico, storico-critico, delle scienze umane, che solo chi ne è del tutto all´oscuro può scambiare per partigianeria, da correggere con la goffa pretesa dell´imparzialità.
Che la verità sia dialettica e complessa, sempre da costruire e sempre da modificare, e non una merce da comperare, un oggetto da detenere una volta per tutte, un dogma, sfugge poi alla destra anche riguardo la scuola. L´insegnamento, da quanto si comprende dalla proposta di legge, consiste nell´inculcare nozioni nel cervello dei giovani, come oggetti esterni che entrano a forza in un contenitore passivo. Ovvio, quindi, che il consumatore debba avere qualche garanzia sulla qualità della merce che si porta in casa, che pretenda di sapere se sia avariata, adulterata, dannosa. Che il rapporto educativo sia l´esatto opposto, è un dubbio che non sfiora neppure gli estensori della proposta di legge, i quali ignorano che la parte principale dell´insegnamento non consiste nell´assegnare lo studio di qualche pagina di manuale, ma nell´autorevolezza personale e scientifica del docente che spiega, commenta e approfondisce un tema, e così opera la formazione dei giovani, sollecitandone lo spirito critico, e fa nascere in loro l´abitudine al giudizio informato – che implica appunto il possesso di un metodo, la conoscenza sistematica di nozioni, e il confronto con una varietà di interpretazioni, distinte chiaramente nelle loro premesse e nelle loro conseguenze. Questo delicatissimo processo, del quale fa parte anche la scelta del manuale – fra una molteplicità di testi differenti, di diverso orientamento e di uguale serietà scientifica –, è un atto di libertà sia del docente sia dei discenti: una libertà didattica e civile che è garantita dalla Costituzione come libertà di insegnamento e come libertà di ricerca.
O forse anche queste parti della Costituzione sono non gradite alla destra, proprio come quelle che affermano che la repubblica democratica è fondata sul lavoro, e che le scuole private possono essere istituite solo senza oneri per lo Stato. Forse, allora, c´è, dopo tutto, qualcosa da imparare da questa proposta di legge: non solo come la destra pensa alla scienza e all´insegnamento, ma anche come pensa alla politica e al suo rapporto con la società. Cioè secondo una modalità assai poco liberale e anzi chiusa, sospettosa, difensiva e aggressiva a un tempo. Una modalità autoritaria o da democrazia protetta; che si manifesta nell´istituzione di una commissione d´inchiesta parlamentare su qualcosa che non c´è, e non ci può essere, come l´imparzialità nel pensare la storia (e poi, per fare che cosa: sanzionare autori ed editori? Licenziare professori? Bruciare libri proibiti?); che si rivela nell´idea che debba esistere una verità “oggettiva” o di Stato (sotto le mentite spoglie della “memoria condivisa”) che faccia premio sulla libera ricerca, che ne sia l´unità di misura; e che tradisce lo sconcerto davanti alla complessità della scienza e della storia, a cui si risponde non con il confronto dialettico ma con il comando politico. Di una politica che – a colpi di maggioranza o di populismo isterico – si vorrebbe sostituire alla comunità scientifica degli studiosi e alla comunità educativa dei docenti e degli studenti, all´autonomia della società civile.
Alla colonizzazione politica del sapere, che passa attraverso queste intimidazioni, si deve rispondere solo col liberalismo: scrivano anche gli storici non di sinistra dei buoni manuali (come certo sanno fare), e si sottomettano alla comune concorrenza scientifica e didattica per promuoverli e affermarli. Così la società, la scienza e la scuola si arricchiranno invece di impoverirsi come senz´altro avverrà se la proposta di legge avrà seguito.
La Repubblica 22.04.11