La politica industriale di un Paese come l’Italia deve muovere dalle diversità. E deve essere capace di suonare tutti i tasti del pianoforte. Non c’è futuro industriale per noi se si rinuncia completamente alla chimica, alla siderurgia, all’auto, settori niente affatto in declino ma in evoluzione. Ovviamente nei settori a larga economia di scala, o hai il fisico per correre da solo, o devi metterti in compagnia. E i Governi possono favorire i grandi accordi industriali extranazionali, come anche possono aiutare a sbagliare.
Spendere tre miliardi di euro per fare una nuova compagnia aerea italiana è stato un grave errore da parte del Governo Berlusconi perché sarebbe bastato ben meno di un miliardo di euro per integrare l’Alitalia con Air France e Klm e mettere la nostra voce in un soggetto più grande. E avremmo così difeso meglio l’italianità: sono certo che nel futuro sarà facile capirlo.
Per aziende come Finmeccanica, la cui committenza fa spesso riferimento agli Stati nazionali, si può addirittura parlare di diplomazia economica. Ma non è vero che questo interesse per le grandi dimensioni debba andare a scapito delle realtà più piccole. Il made in Italy oggi viaggia attraverso medie imprese che operano in settori anche di nicchia, con una rete commerciale internazionale.
La strategia deve essere duplice: da un lato, bisogna comunque favorire il rafforzamento dimensionale dell’impresa e dare quantomeno un carattere stabile ai finanziamenti necessari, dall’altro è necessario intensificare la rete di collegamenti interni fra i singoli produttori. Il pubblico può aiutare la media impresa a internazionalizzarsi e la piccola a rafforzarsi in un sistema a rete.
Anche attraverso il supporto dei servizi e la liberalizzazione delle professioni: negli anni Settanta i commercialisti aiutarono l’espansione della piccola impresa, oggi abbiamo bisogno di una nuova generazione di professionisti che aiutino l’impresa nell’export e nella competizione sui mercati emergenti. Il rifiuto della destra corporativa a consentire l’avvio di un modello italiano di società professionali è stato ed è, secondo me, un danno gravissimo.
(…)L’internazionalizzazione della Fiat è stata certamente un fatto importante. La competizione nel settore auto è spietata perché nel mondo c’è una capacità produttiva ormai largamente superiore alla possibilità di assorbimento del mercato. Senza alleanze, senza strategie valide, non si può sopravvivere. Ma ora si tratta di capire dove si collocherà il baricentro della nuova Fiat e quali progetti prenderanno forma in Italia. Sono molto interessato al piano Fabbrica Italia annunciato da Sergio Marchionne. I contenuti, però, sono ancora da chiarire. Del piano annunciato si conosce solo una piccola parte e, in particolare, non si sa abbastanza delle fondamentali attività di ricerca, che restano un punto cruciale per comprendere quale sarà il ruolo del nostro Paese anche nella produzione.
Il Sole 24 Ore 14.04.11