cultura

"Per difendere la società civile ritorniamo a fare cultura", di Carlo Fontana

La cultura ha fatto il pieno» . Così ha di recente titolato, con opinabile eleganza, uno studio pubblicato online da un centro studi economico di deciso orientamento liberista, senza darsi briga di verificare quanto, dell’ipotizzato aumento di due centesimi delle accise sulla benzina, fosse effettivamente necessario al reintegro del Fus e dei fondi per i beni culturali, e quanto per altri scopi. E senza neppure la preoccupazione di sottoporre a critica la rigida e poco assennata strategia di tagli lineari fino a quel momento difesa dal governo contro ogni ragionevole obiezione. Nessun accenno a tutto questo, nello studio sopracitato: piuttosto, la solita giaculatoria di presunti rimedi di stampo economicistico contro una cultura sprecasoldi, maldiretta e incapace di stare sul mercato. Purtroppo (e, ahimè, prevedibilmente) i commenti apparsi all’indomani del provvedimento si sono perlopiù espressi nello stesso modo, cavalcando l’onda di malumore dell’utente motorizzato. Ora, che il finanziamento delle attività culturali, musicali e dello spettacolo, peraltro previsto dalla nostra Costituzione, rappresenti un problema economico è fuor di dubbio. Giunge però a proposito, anche ad illuminare il pensiero di certi nostri liberisti («all’amatriciana» li avrebbe definiti Flaiano), ricordare la lezione di un grande liberale quale Luigi Einaudi, che ebbe a scrivere: «Chi cerca rimedi economici a problemi economici è su falsa strada; la quale non può che condurre se non al precipizio. Il problema economico è l’aspetto e la conseguenza di un più ampio problema, spirituale e morale» . Meglio non si potrebbe dire. Se vogliamo ripensare e ridisegnare un fondamentale comparto della nostra vita civile qual è la cultura, da qui dobbiamo ripartire: dal cercare soluzione a un problema che anche in questo caso si presenta, innanzitutto, come «spirituale e morale» . Già. Ma a chi toccherebbe, in questo caso, assumere l’iniziativa, addossandosene oneri e responsabilità? Forse alla classe politica, che in larga parte continua a mostrarsi sorda a queste tematiche? O ai manager, categoria salvifica tanto più invocata quanto meno esperta nella materia da gestire? O agli artisti, a cui toccherebbe di esprimere ben diversamente— ed è giusto così — la loro creatività? Sono tutte domande a cui trent’anni fa sarebbe stato facile rispondere: il compito di indicare il cammino spetta in primo luogo agli operatori culturali. Operatori culturali: l’espressione suona oggi un po’ desueta, ma ancora negli anni Novanta non sarebbe stato difficile riferirla a numerose e note figure del panorama artistico nazionale. Organizzatori di cultura animati da una forte carica di passione civile, capaci di individuare progetti, di suscitare nuovi stimoli al dibattito, di animare con nuove iniziative gli interventi di pubblico interesse. Pur con accenti e sfumature diversi, per gli operatori culturali attivi in Italia dal dopoguerra all’ultimo decennio dello scorso secolo l’idea da affermare era semplice: le attività culturali hanno valore e legittimano l’investimento di risorse pubbliche quando contribuiscono giorno per giorno alla costruzione e al miglioramento dei rapporti umani, «spirituali e morali» per dirla con Einaudi, tra i cittadini. La cultura, dunque, deve essere sostenuta dalla finanza pubblica in quanto servizio, entro cui trovano soddisfazione specifici bisogni individuali e della società nel suo insieme. Si trattava, lo si vede bene, di una visione comune, condivisa da chi operava sia nel «pubblico» sia nel «privato» , dentro o fuori dalle istituzioni. Obiettivo del proprio agire, per l’operatore culturale, era «l’utilità sociale» . Non altro: non il ritorno di immagine, non la visibilità mediatica, non la logica alla quale si vorrebbe talvolta piegare la cultura per conseguire esiti distanti dal suo fine più autentico e profondo. Ne esistono ancora, oggi, di «operatori culturali» ? Certamente sì. Può far sorridere, in tempi dominati da professionalismi di varia estrazione, sempre e comunque ammantati dall’ambigua veste della managerialità, ricordare che quella dell’operatore culturale è stata (e dovrà tornare ad essere, credo) una missione. Ma sarebbe già un bel passo avanti insinuare, nel conformismo del momento, il dubbio che il continuo, abusato ricorso a parole come «mercato» , «prodotto» , «impresa» , «eccellenza» , abbia infine generato una falsa convinzione: che fare cultura sia innanzitutto un problema di autosostenibilità economica. Non è così né mai lo è stato. Fare cultura è in primo luogo favorire l’affermazione di un sistema di valori «spirituali e morali» nel quale la società possa riconoscersi. Fornire, insomma, una bussola di civiltà ad ognuno di noi. Al lavoro degli operatori culturali ancora attivi nel nostro Paese il compito di aiutarci, se smarrita, a ritrovarla. sovrintendente del Teatro alla Scala dal 1990 al 2005.

Il Corriere della Sera 29.04.11