Costretti al permesso di soggiorno perché non c’è una legge a renderli subito «regolari». «Noi, italiani Vogliamo la piena cittadinanza». Bersani: «È una vergogna che lo Stato non riconosca un milione di nati in Italia». Alla Camera, due proposte di legge sulla cittadinanza in attesa di essere calendarizzate. Turco: «Fini passi dalle parole ai fatti». Ritmo sincopato. Parole leggermente piegate alle esigenze dell’hip hop. «Fratelli in Italia, l’Italia s’è desta…», cantano i nati nel paese che ancora non ha deciso il loro status. Né italiani, né stranieri, finché la legge non li riconoscerà per quello che sono. Loro davanti a Montecitorio l’inno d’Italia lo scandiscono come un rap di protesta, con le braccia che si levano su e giù come un avvertimento. E come dovrebbero cantarlo visto che lo Stato dove i loro genitori li hanno messi al mondo e/o cresciuti li ha lasciati per anni senza cittadinanza?
Le idee sul futuro del paese sembrano avercele più chiare loro, che, come dice Khalid Choauki portavoce del Forum Immigrazione conoscono anche l’inno di Mameli «meglio di tanti parlamentari della Lega».
«Appena finita la scuola vorrei montare pannelli solari, le energie alternative sono il futuro», spiega Jasmeet Singh Samra, 18 anni, all’ultimo anno dell’istituto tecnico industriale. «Il rap con i Termini Underground è un hobby». Quando è nato, nel Punjab, suo padre, che ora fa il giardiniere, era già l’Italia. Lui lo ha raggiunto che aveva appena 4 anni, con sua madre, che ora lavora in un ospizio per anziani. E ora a 18 anni si ritrova addosso l’inconfondibile accento della periferia romana in cui è cresciuto, a Quarto Miglio. Che non lo salva però dalla trafila riservata agli immigrati. Fatta di permessi di soggiorno. E di «perquise», che in gergo giovanile è «quando la polizia ti ferma in strada e ti comincia a domandare: da dove vieni?».
Cristina He, 17 anni, è nata in Italia, ma deve aspettare i 18 anni per chiedere la cittadinanza. I suoi, che erano appena arrivati dalla provincia del Zhejiang, le misero quel nome desiderando che loro figlia si sentisse sempre a casa sua nel paese in cui l’avevano fatta nascere. «È stato un trauma quando a cinque anni ho capito che non ero cittadina italiana». Era piccola ma sapeva già leggere e aveva visto che sulla carta sanitaria c’era scritto «cittadina cinese»: «Perché papà?».
Julija Stevanovic (che al rap preferisce una sintetica cronistoria) è un po’ più grande: 21 anni, iscritta a Scienze Politiche a Padova, anche lei è ancora in attesa di cittadinanza. «Ormai a casa mia ce l’hanno tutti, mio fratello mi prende anche in giro», ironizza Julija che è venuta in Italia a tre anni, con i genitori «cittadini croati di origine serba, costretti a fuggire per paura delle persecuzioni». Per fare la domanda ha dovuto aspettare i 18 anni e la risposta non è ancora arrivata: «Lo sai la cosa che mi fa più rabbia? È che ora ci sono i referendum e io non posso nemmeno votare».
Sullo sfondo, mentre i fratelli d’Italia si raccontano, Montecitorio sembra di cartapesta. Lì dentro giacciono indiscusse tutte e due le proposte di legge per riconoscere la cittadinanza ai nati in Italia. La prima, depositata dai deputati del Pd Bressa e Zaccaria, risale al 2008. L’altra, a doppia firma Sarubbi (Pd) e Granata (allora ancora Pdl), a quando Fini, proprio sull’immigrazione, cominciava a smarcarsi dagli alleati. «Siamo qui anche per dire al presidente della Camera che dopo più di un anno dovrebbe passare dalle parole ai fatti», scandisce Livia Turco, dallo stesso palco de i giovani rapper: «Sappiamo che il centrodestra è ostile, ma noi quella proposta l’abbiamo iscritta all’ordine del giorno e vogliamo che vada avanti». Anche Bersani nonèvolutomancarealsit-inorganizzato dal Pd. «Sull’immigrazione il fallimento delle politiche del centrodestra è stato totale», dice il segretario, «ma qui parliamo del diritto di chi è nato e cresciuto in Italia di essere cittadino italiano ed è una vergogna che pesa sulla coscienza del paese che ci sia un milione di ragazzi né immigrati né italiani». L’impegno del Pd spiega è riconoscerli italiani e basta ,«appena avremo mandato a casa il centrodestra». La legge sulla cittadinanza sarà all’ordine del giorno del primo Consiglio dei ministri, promette Livia Turco. E intanto il sit-in spiega Marco Pacciotti, coordinatore del Forum Immigrazione serve a dare una scossa a chi siede ora in parlamento.
L’Unità 28.04.114
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“20 mila come fantasmi”, di Franco Giubilei
È il numero dei giovani nati in Italia da genitori stranieri che negli ultimi 18 mesi sono diventati maggiorenni: cittadini italiani fino al giorno prima, ora sono costretti a chiedere in questura il permesso di soggiorno per non essere clandestini “Noi, italiani con permesso di soggiorno”. Nati e cresciuti qui da genitori immigrati, a 18 anni perdono la cittadinanza: le loro storie in un film.
Un bambino (o una bambina) può nascere in Italia, andare all’asilo e poi a scuola in Italia, diciamo fino alla quinta superiore, ma non per questo potrà necessariamente dirsi italiano: sì, perché al compimento della maggiore età il figlio di due stranieri privi di cittadinanza si ritroverà in un’anagrafica terra di nessuno, dato che da noi si diventa cittadini a patto che lo sia almeno uno dei genitori, o che si rispetti una normativa contorta.
Una condizione in cui vivono quasi 20mila ragazzi che sono diventati maggiorenni fra il 2010 e il 2011 nel nostro Paese, tutti venuti alla luce lungo lo Stivale o giunti qui a pochi anni d’età, e tutti rigorosamente orfani di cittadinanza. Parla di loro il documentario «18 ius soli», realizzato da un regista nato a Bologna 40 anni fa da padre ghanese e madre italiana: Fred Kudjo Kuwornu, già aiuto di Spike Lee nel film «Miracolo a Sant’Anna», ha raccontato le storie di quindici giovanissimi costretti, loro malgrado, a fare il permesso di soggiorno nonostante siano italiani a tutti gli effetti.
Basta scorrere il curriculum di alcuni degli intervistati, come la ventenne Heena, nata a Reggio Emilia da genitori indiani, studentessa di Giurisprudenza e mediatrice culturale. O di Valentino, romano di origini nigeriane, studente di Biotecnologia e artista hip-hop. Oppure di Anastasio, parmigiano di nascita ma con padre e madre delle Mauritius, di professione cuoco, nel tempo libero volontario alla Croce Rossa. O vogliamo parlare di Angela, 23 anni, nata a Rimini ma dagli occhi a mandorla dal taglio inconfondibilmente cinese, studentessa di Economia e commercio?
A guardarli e ad ascoltarli nel documentario – che oggi sarà presentato in anteprima nazionale alla fiera Cittadini del Mondo di Reggio Emilia e che, per iniziativa della Regione Emilia Romagna, sarà proiettato in tutte le scuole superiori – c’è da chiedersi dove stia la differenza fra questi ragazzi e i loro coetanei italiani a tutti gli effetti, colore della pelle e lineamenti a parte.
Il fatto è che in Italia vige il criterio dello Ius sanguinis, il diritto di sangue, ragion per cui il titolo del film è «18 ius soli», in segno di auspicio perché la legislazione cambi tenendo conto della terra in cui si vive, mettendo così fine a un controsenso dai risvolti discriminatori. Nel documentario c’è anche la testimonianza del presidente della Camera Gianfranco Fini.
L’autore del film ricorda come, a complicare la vita dei figli degli immigrati, ci sia una burocrazia rugginosa: «Ci sono i ragazzi nati in Italia, che quando compiono 18 anni hanno un anno di tempo per presentare domanda e che devono dimostrare di aver vissuto ininterrottamente in Italia per un decennio. E poi c’è la casistica più numerosa, cioè quelli arrivati in Italia da piccoli, che a 18 anni possono fare domanda ma ai quali lo Stato non è tenuto a dare la cittadinanza, perché è un atto discrezionale. C’è anche un problema d’informazione, pochi conoscono le regole».
Prima della maggiore età ci sono difficoltà ad espatriare, anche solo per andare in gita scolastica all’estero, perché serve il permesso del consolato. Dopo i 18 anni poi bisogna trovare subito un lavoro, oppure non sgarrare negli studi, altrimenti il permesso di soggiorno non viene rinnovato e ci si trasforma in clandestini a rischio espulsione. Fra i casi estremi, quello di Anastasio, nato a Parma 21 anni fa: «E’ stato clandestino per sei mesi perché, per un errore dell’ufficio anagrafe in occasione di un trasloco della famiglia, il periodo di dieci anni necessario per la cittadinanza si è interrotto per un mese, e così ha dovuto ricominciare da capo. A lui sarebbe piaciuto fare il soldato, invece non ha potuto perché non ha ancora la cittadinanza. Ed è una persona ottima: quando c’è stato il terremoto all’Aquila è andato per un mese a far volontariato. Eppure incontra mille problemi».
La Stampa 28.04.11