Non ho sempre pensato di fare il chirurgo. Da bambino mi affascinavano i carrettieri che sul molo di Genova trasportavano le merci su carri con ampi pianali trainati da imponenti cavalli; da ragazzo per un periodo ho pensato addirittura di fare l’orologiaio. Poi, dopo il primo trapianto di cuore eseguito da Christiaan Barnard, nel 1967, fui folgorato dalla chirurgia dei trapianti. I miei sogni e i miei dubbi di adolescente erano quelli di tantissimi giovani di oggi, ma io ho avuto una fortuna che molti non avevano: la possibilità di scegliere. Nello scenario politico senza visione di questi tempi, si sventola il vessillo del “lavoro manuale” e si scivola in dichiarazioni poco costruttive su “cattivi genitori” che spingono i figli alla laurea quando potrebbero “imparare un mestiere”. Non c’è nulla di sbagliato in questo ma deve rimanere una scelta, un progetto di vita che un giovane vuole costruire per seguire la sua passione. Temo non sia così. È evidente che la maggioranza di destra governa ritenendo di trovarsi di fronte a cittadini poco consapevoli nella scelta dei percorsi di studio e senza interrogarsi se sia o meno un errore rinunciare ad investimenti in innovazione, ricerca e sviluppo. Questo orientamento sulle politiche educative diverrà presto un obbligo implicito, sono i numeri a dirlo: disoccupazione giovanile quasi al 30%; diminuzione delle immatricolazioni nell’anno accademico 2009/2010 (293mila a fronte delle 338mila del 2003/2004); calo di studenti che al termine delle medie secondarie decidono di proseguire gli studi. Gli investimenti in innovazione e sviluppo sono fermi da undici anni, secondo i dati Ocse, all’1,18% del Pil: fanno meglio di noi Portogallo, Repubblica Ceca, Slovenia ed Estonia. E tutto questo mentre l’amministrazione Obama parla di un nuovo “momento Sputnik” e punta su un milione di auto elettriche entro il 2015; sulla maggiore percentuale di popolazione laureata rispetto ad ogni altro Paese entro il 2020; sull’80% di energia pulita entro il 2035; e poi banda larga e internet superveloce per tutti. Nel ragionamento del governo manca inoltre una tessera fondamentale del mosaico sociale: il gelataio, il panettiere, l’orefice, il piccolo produttore di caffé hanno operato una scelta di vita legittima e lavorano per prodotti di alta qualità, ma vivono in un mondo globalizzato. Quale competitività mondiale potremo assicurare a questi prodotti se non avremo ad esempio, laureati in economia ed ingegneria? Di più, il ministro Gelmini è certa che in Italia non ci sia più bisogno di fisici nucleari o di ricercatori delle malattie neurodegenerative? E chi svilupperà i software delle cartelle cliniche elettroniche e la telemedicina negli ospedali ma soprattutto le nuove applicazioni informatiche sul nostro territorio? Gli italiani che fanno ricerca all’estero sono migliaia e producono ricchezza: la loro fuga, infatti, in vent’anni è costata all’Italia oltre 4 miliardi di euro (la cifra corrisponde a quanto ricavato dal deposito di 155 domande di brevetto, dei quali l’inventore principale è nella lista dei “top 20” italiani all’estero). Io vorrei vivere in un Paese in cui una cosa non esclude l’altra, in cui non ci sia una sola via all’occupazione: non è incitando i ragazzi ad accaparrarsi gli ultimi lavori da elettricisti, gruisti e falegnami che risolveremo il problema della disoccupazione giovanile.
L’Unità 25.04.11