La marcia indietro del governo sulla costruzione di quattro centrali nucleari mira a evitare un «no» popolare non solo in questo referendum ma anche – e soprattutto – negli altri due con i quali gli italiani sono chiamati a esprimersi il 12 giugno: quello sulla privatizzazione dell’acqua e quello sul legittimo impedimento. Un «no» sul nucleare, sull’onda dell’incidente alla centrale atomica giapponese di Fukushima, potrebbe infatti facilmente tirarsi dietro altri due verdetti negativi; e se l’impatto emotivo di Fukushima inducesse più della metà degli elettori a recarsi alle urne – dopo una lunga serie di referendum in cui il «quorum» non è stato raggiunto – l’incidente atomico porterebbe al siluramento sia della privatizzazione dell’acqua sia delle norme sul legittimo impedimento che stanno particolarmente a cuore al presidente del Consiglio.
Questo sembra essere il retroscena politico della rinuncia-rinvio del governo sul nucleare. Più rinvio che rinuncia, stando alle dichiarazioni in Senato del ministro delle Attività produttive, Paolo Romani. Il governo sembra poi essere riuscito a provocare divisioni non piccole nell’opposizione mentre l’eventuale acquisto di centrali nucleari americane anziché francesi, potrebbe rappresentare una ritorsione contro Parigi per una serie di «dispetti» che va dal caso Parmalat all’immigrazione e a Schengen.
Tre piccioni con una fava, quindi. Se così è stato, il governo si è dimostrato politicamente astuto e, per usare un termine calcistico, ha «dribblato» gli avversari. A queste capacità tattiche indubbiamente buone si accompagna però un’eccezionale miopia di lungo periodo. Quella delle centrali nucleari, infatti, non avrebbe dovuto essere una scelta opportunista, né la rinuncia alle centrali avrebbe dovuto trasformarsi in un proiettile in più da usare nella battaglia politica di tutti i giorni. Si doveva trattare, secondo il programma del governo, di una struttura portante della futura crescita italiana. Su questa struttura portante si poteva ampiamente discutere ma si trattava in ogni caso di un raro guizzo di strategia in una politica ostinatamente, talora sciaguratamente, avvitata sul presente.
La rinuncia al nucleare non appare invece accompagnata da alcuna indicazione di alternative: niente centrali atomiche, e basta. Fermiamo la «dissennata» corsa alla crescita e godiamoci il verde, anzi l’estremismo verde, tutto semplicità e ritorno al passato. Facciamo finta di dimenticare che l’Italia si è sempre sviluppata quando ha avuto ampie disponibilità energetiche e che la sua crescita è strangolata, tra l’altro, da un costo dell’energia elettrica per le imprese nettamente superiore alla media europea. Il «piano delle riforme» preannunciato dal ministro dell’Economia, non può partire se non ha come premessa una strategia energetica. E una strategia non si costruisce abbandonando, senza sostituirli, i progetti precedenti.
Dopo lo «choc» petrolifero del 1973-74 l’Italia si era data una strategia, quella di diversificare i fornitori e sostituire parzialmente il petrolio con il gas naturale. Per circa vent’anni è stato possibile ottenere una crescita abbastanza sostenuta, anche se non esaltante. Oleodotti e gasdotti dall’Europa orientale e dalla riva meridionale del Mediterraneo hanno consentito agli italiani un afflusso regolare, anche se non a buon mercato, di elettricità, benzina e gasolio. Le mutate condizioni richiedono oggi un disegno di lungo periodo del quale non si vedono le premesse.
Ciò è tanto più grave in quanto ci sono ormai chiari segni di scarsità di petrolio «buono», ossia di petrolio facilmente estraibile; le centrali a carbone, anche nella variante «pulita» non sono proponibili in un Paese come l’Italia nel quale l’inquinamento atmosferico obbliga tutti gli inverni a decretare divieti alla circolazione degli autoveicoli. L’energia solare e quella eolica possono essere soluzioni «di contorno» e soddisfare soprattutto la domanda a bassa potenza del consumo famigliare ma è molto difficile – e in ogni caso provoca troppi sprechi – utilizzarle per far muovere un treno ad alta velocità, o per far funzionare un altoforno.
È possibile che la vera alternativa al nucleare sia una politica che spinga a migliorare l’efficienza energetica sia delle imprese sia dei consumi delle famiglie. Se, per avventura, il mondo riuscisse a dimezzare il fabbisogno energetico per la produzione, i trasporti, il riscaldamento e gli usi domestici si otterrebbe il medesimo effetto che deriverebbe da un raddoppio delle riserve energetiche. Uno sforzo importante in questa direzione si ebbe dopo lo choc petrolifero del 1973-74 e in questo campo le imprese italiane non sono mal piazzate: ci sarebbero importanti ricadute tecnologiche a nostro favore.
Il rischio è invece che non si faccia nulla: che si mettano nel cassetto i piani nucleari per tirarli fuori quando la tempesta sarà passata senza seguire strade alternative e che i problemi energetici sollevino semplicemente un polverone di polemiche spicciole. Si tratta di un blocco delle decisioni che gli italiani conoscono molto bene per averlo sperimentato per decenni e che caratterizza quasi tutti i progetti infrastrutturali del Paese. Se il piano nucleare si risolverà semplicemente in un simile blocco, l’Italia si qualificherà una volta di più come un Paese senza energia: non solo quella fisica ma anche quella intellettuale e politica, anch’essa fondamentale per riproporre davvero quella crescita e quello sviluppo che continuano a sfuggirci.
La Stampa 21.04.11