Che l’Italia sia un Paese che tiene i suoi giovani in scarsa considerazione è risaputo, avendo ogni giorno di più la riprova di quanto tenaci siano le resistenze delle generazioni più anziane a rinunciare a qualche privilegio. Un ennesimo esempio viene dalle sentenze della Cassazione che, in materia di previdenza dei liberi professionisti, salvano i diritti acquisiti a danno delle esigenze di riforma e del patto intergenerazionale.
Le sentenze, infatti, accolgono il ricorso di iscritti alla Cassa dei ragionieri contro la decisione di quest’ultima di liquidare la pensione non più sulla base di una media dei 15 migliori redditi degli ultimi 20 anni di contribuzione, bensì della meno cospicua media dei redditi di tutta la vita (con l’ulteriore limite di una differenza massima del 20% a sfavore della seconda modalità).
Al di là degli aspetti tecnici, non vi è dubbio che si tratti di una rinnovata difesa della categoria dei “diritti acquisiti”, al cui altare molti diritti, non ancora acquisiti, delle generazioni giovani e future sono stati sacrificati, e molte disparità di trattamento, ingiustificabili sul piano etico, tollerate. È difficile comprendere le ragioni profonde di questa scarsa sensibilità agli equilibri tra le generazioni. In un’epoca in cui ovunque si afferma l’importanza dell’alfabetizzazione economico-finanziaria, non sembra che i giudici ne dovrebbero esserne esenti, e il concetto di costo-opportunità nell’uso delle risorse dovrebbe farne parte.
L’origine sta in una malintesa autonomia gestionale delle Casse. Le “vecchie” – che fanno capo alle professioni storiche, come avvocati, architetti, commercialisti, ragionieri – furono privatizzate nel 1994 con un provvedimento che attribuiva loro la possibilità di combinare il meccanismo finanziario della ripartizione con la generosa formula retributiva (le Casse di nuova istituzione nascono invece con il vincolo della pensione contributiva). Una combinazione che, a meno di una continua e forte crescita degli iscritti e dei loro redditi pro-capite, è scarsamente compatibile con l’equilibrio finanziario, almeno nel medio-lungo periodo. Ne è scaturita una grande sproporzione tra i benefici garantiti (è il caso di dirlo) alle generazioni anziane e quelli “promessi” (si fa per dire) ai più giovani, che già scontano maggiori difficoltà nell’accesso alla professione e peggiori condizioni reddituali, con scarse prospettive famigliari, di lavoro e, di volta in volta, vengono definiti sfaticati o “bamboccioni”. Poiché alle prime è attribuito, in termini di pensione, un multiplo del corrispettivo attuariale dei loro contributi, sulle seconde generazioni viene a gravare il conseguente divario.
Consapevoli di questa contraddizione intrinseca, alcune Casse hanno innovato il loro disegno previdenziale, sempre mantenendo il finanziamento a ripartizione ma passando al metodo contributivo, che si basa per l’appunto sull’equità attuariale propria dei mercati assicurativi. Il legislatore è, a sua volta, intervenuto imponendo l’utilizzo sia di proiezioni su un periodo più lungo, sia di parametri più realistici, con i quali pilotare la gestione delle Casse nel breve-medio periodo: se i contributi non sono sufficienti, e si genera in previsione un disavanzo strutturale a partire dai 2-3 lustri successivi, le Casse debbono mettere in atto misure correttive del disavanzo.
Purtroppo quest’azione riformatrice si scontra con la difesa, ribadita dai giudici, dei diritti acquisiti. Così, le sentenze che danno ragione ai ricorrenti “puniscono” le casse più coraggiose e premiano quelle che hanno opposto maggiori resistenze alle correzioni. Dopo queste sentenze, sarà più difficile per le Casse affrontare il tema dell’equità tra le generazioni, e quelle più conservatrici se ne faranno comodo “scudo”.
Il Sole 24 Ore 20.04.11