L’ultimo colpo alla botte sempre più vuota dell’Unione europea lo ha sferrato la Finlandia, con un risultato elettorale non solo esiziale in sé, ma anche spia paradigmatica della brutta aria che tira su quasi tutti i Paesi comunitari. I «Veri Finlandesi» dell’euroscettico e nazionalpopulista Timo Soini sono stati i veri trionfatori di una gara che, in convenzionali e vaghi termini statistici, li mette al «terzo posto». Ma se analizziamo più da vicino il risultato, vediamo che la sostanza politica della classifica è quanto mai opinabile. L’impressionante marea di voti ha posto in realtà il partito dell’antieuropeista Soini quasi al secondo posto e non lontano dal primo, con un 19,6 per cento contro il 19,8 dei socialdemocratici e forse il 20 dei conservatori: ai quali, dopo il tracollo del partito centrista della premier uscente Kiviniemi, spetterà l’onere spinoso di formare la nuova coalizione di governo.
Ma non basta. I dati del recente passato ci dicono che il trionfo di Soini è stato altrettanto schiacciante quanto imprevedibile. Il suo partito xenofobo ha spiccato infatti un balzo gigantesco dallo scarno 4 per cento del 2007, quintuplicando i seggi da 6 a 38, mentre i conservatori con la loro vittoria di Pirro ne perdono 6 e i socialdemocratici 2.
È possibile quindi che i «Veri Finlandesi» possano entrare nella futura coalizione, ottenendo qualche ministero pesante nei settori dell’economia e dell’immigrazione. Però, se ne restassero esclusi, la loro prepotenza anche numerica dai banchi d’opposizione si farebbe sentire comunque su uno dei nodi più delicati della politica europea del prossimo governo di Helsinki: il salvataggio finanziario del Portogallo, che richiede l’unanimità dei 17 membri dell’Eurozona, e già da tempo suscita il crescente malumore della maggioranza dei finlandesi. «Quale Portogallo?», obietta Soini. «Si è già visto che il pacchetto di aiuti alla Grecia e all’Irlanda non ha funzionato».
Se poi spostiamo lo sguardo su altri territori scandinavi e dell’Europa nordica, che sta diventando sempre più nordista, ci accorgiamo che la musica non cambia e anzi si fa più minacciosa. In Svezia, i cosiddetti «democratici», che rappresentano l’estrema destra, sono riusciti lo scorso settembre a entrare per la prima volta nella Camera dei deputati superando la soglia di sbarramento; un partito analogo è presente nel parlamento danese; in Olanda gli ultranazionalisti di Geert Wilders, nonostante la campagna ostile all’aiuto ai Paesi europei in bancarotta, sono stati accettati come forza di sostegno dal governo di minoranza; in Belgio il populismo regionalista di Bart De Wewer paralizza da circa dodici mesi la formazione di un nuovo esecutivo. Un anno senza governo: caso limite fra le democrazie europee.
Che dire inoltre dell’affondamento di tutte le regole antidoganali di Schengen, voluto e imposto dalla Francia all’Italia, con colpi bassi di polizia intesi a impedire l’arrivo da Ventimiglia o da Bardonecchia di migranti tunisini di lingua francese? Forse non ci si rende del tutto conto che si tratta di un affondamento delle stesse basi di libertà e di convivenza civile su cui, dai tempi della Ceca, ormai leggendari, avevamo cercato di creare un continente transnazionale che oggi chiamiamo Unione Europea con parole vuote e fatti che la contraddicono alla radice. Oggi la linea storta di Sarkozy in crisi elettorale, incalzato da Marine Le Pen in testa ai sondaggi per il primo turno delle presidenziali 2012, non appare altro che una replica esasperata e isolazionista della politica della «sedia vuota» di De Gaulle. Non ritroviamo qualcosa del Generale che abbandonò la Nato, che sognò un’Antieuropa carolingia, nel modo con cui il suo ultimo erede si è lanciato quasi da solo, o malamente scortato, nella guerra calda in Libia e nella guerra fredda con l’Italia? Non sappiamo ancora se tutto questo basterà a Sarkozy per soffocare il canto della sirena Marine, la quale, per batterlo in curva, promette ai moltissimi francesi che la ascoltano addirittura un referendum sull’uscita dall’Unione europea. Di certo sappiamo che Sarkozy sta già rispondendo alla rivale con le sue personalissime e implicite azioni poco europee, per non dire antieuropee. Un grande e sincero europeista come Robert Schuman, autore del «piano S» da cui nacque la Ceca, si rivolterà nella tomba.
La verità amara è che nulla, purtroppo quasi nulla, dell’Europa immaginata dai «padri fondatori» alla Schuman ha attecchito in profondità. L’Europa ha sempre affossato gli strumenti che avrebbero potuto darle il prestigio e la forza di competere con le maggiori potenze del mondo. Ha bocciato l’idea di un esercito comune, di una politica estera comune, di un vero presidente eletto e riconosciuto da tutti gli europei. Non è andata al di là dell’euro, dando al presidente della Banca Centrale di Francoforte quasi la supplenza di un capo di Stato; ma ora, con l’euro pure in crisi, si vede che da Francoforte potevano e possono partire solo impulsi per salvare banche e banchieri, ma assai meno i cittadini impoveriti di Atene, di Dublino, di Lisbona. Meno ancora per fronteggiare le sfide delle potenze emergenti o già emerse da secoli come la Cina, la Russia, gli Stati Uniti.
Si direbbe che l’attuale Europa divisa, autolesionista, acefala, dove è di moda celebrare in primissimo luogo il glorioso passato nazionale, sia giunta al momento della verità: andare avanti, o indietreggiare e sfasciare quel poco che s’è fatto? La cosa peggiore sarebbe, in ogni caso, che tutti quanti gli europei diventassero prima o poi «veri finlandesi».
La Stampa 19.04.11