C’ è chi li chiama bamboccioni, chi, citando una commedia francese di qualche anno fa su una famiglia che non riesce a cacciare il figlio trentenne inchiodato a casa, Tanguy. La verità è che se in Italia milioni di giovani hanno un problema a costruirsi un’esistenza fuori dalla famiglia, i motivi sono solo in parte antropologici. E più che a indolenti ragazzoni che preferiscono farsi lavare i calzoni dalle madri a quarant’anni, in mancanza di politiche pubbliche che li tutelino, i giovani somigliano sempre di più a funamboli senza rete. E la recessione ha avuto solamente l’effetto di rendere evidenti i difetti del sistema che stanno condannando ormai quasi due generazioni a stare peggio delle precedenti.
Cresciuta nella consapevolezza di dover dimenticare il mito del posto fisso che aveva segnato la vita dei propri genitori, dagli anni 90 la generazione dei flessibili ha imparato invece che il destino più comune è invece quello di precario. Non è una distinzione politica: lo affermano apertamente economisti e giuslavoristi autorevoli come Boeri, Trivellato o Ichino. La differenza? Chi è flessibile passa idealmente da un lavoro all’altro migliorando le proprie competenze e il proprio stipendio. Fino al 2008, l’anno della crisi, in Italia è cresciuto invece un esercito di lavoratori lontano da questa realtà. Uomini e donne spesso inchiodati allo stesso lavoro, senza tutele e sempre con lo stesso stipendio, con contratti a tempo reiterati per anni e anni.
Così, la differenza tra flessibile e precario è diventata in sostanza una differenza di prospettiva. Erano 2,8 milioni secondo la Banca d’Italia o l’Istat, quasi 5 secondo altri studiosi. Ma la crisi ha segnato uno spartiacque: l’ultimo Bollettino di Bankitalia afferma che per le nuove assunzioni si registra dalla fine del 2010 un crollo di quelle a tempo indeterminato mentre aumentano esponenzialmente quelle a tempo parziale e part time.
Questo esercito crescente – ecco un altro, enorme problema – secondo l’Istat è anche condannato a stipendi da fame: in media 1.026 euro al mese (rapporto 2009). È noto che milioni di imprese rimaste con l’arrivo dell’euro senza la possibilità della vecchia svalutazione competitiva non hanno investito in azienda per fare il salto tecnologico e sentirsi minacciate un po’ meno dai famosi prodotti cinesi. Hanno preferito invece mantenere basso il costo del lavoro schiacciando i salari. Il risultato è denunciato anche dalla Banca d’Italia, che parla spesso dei redditi dei dipendenti (tutti, non solo quelli dei giovani ovviamente) che hanno registrato addirittura un calo da quindici anni a questa parte, in termini reali.
A questo si aggiunga che anche il costo della vita costringe ad allungare la permanenza nella famiglia di provenienza. Un esempio banale? A causa della bolla immobiliare degli anni Duemila, è diventato proibitivo con un ragazzo con uno stipendio di mille euro mettere il naso fuori casa, cioè prendere un appartamento in affitto o men che meno, comprarsi una casa. Un ulteriore aspetto, non meno importante perché è emerso soprattutto durante la crisi, è la mancanza di un paracadute nei periodi difficili. Il nostro è ancora un sistema tarato sugli anni Settanta, quando in Italia c’era la grande industria e una prevalenza assoluta di contratti a tempo indeterminato: per i momenti difficili, era prevista la cassa integrazione. I precari non possono invece contare su alcun tipo di tutela. Ecco perché molti studiosi insistono da anni che la riforma prioritaria è quella degli ammortizzatori sociali per garantire un sussidio di disoccupazione a tutti. Non solo ai padri, ma anche ai figli.
La Stampa 18.04.11