La sentenza con la quale i giudici di Torino hanno condannato l’ex ad della Thyssen-Krupp Italia, Harald Espenhahn, a 16 anni e mezzo per “omicidio volontario con dolo eventuale” ha scosso la sensibilità di tutti. Proprio per coglierne i molteplici significati, al verdetto sono stati aggiunti vari aggettivi, definendolo, da una parte, «storico» ed «esemplare», dall’altra, «mediatico» e «politico». Attributi che riconoscono, nella giustificata emotività delle reazioni immediate, l’importanza della decisione, ma che andrebbero analizzati meglio, proprio per evitare di distorcere il valore di quella sentenza, con valutazioni generiche e strumentali.
È certamente la prima volta, almeno in un processo di tale risonanza pubblica, che sia stato riconosciuto «il dolo eventuale» per una morte sul lavoro. Da questo punto di vista, può essere adatta l’iperbole epocale, pur considerando che si tratta di un giudizio su uno specifico caso e, quindi, non estensibile ad altre vicende simili. Al di là del ricorso alla storia, però, sarebbe meglio mettere in luce le conseguenze positive dell’azione della magistratura torinese nella tragedia dell’acciaieria. Innanzi tutto, la dimostrazione che la giustizia, anche in Italia, può concludere, in tempi ragionevolmente brevi, un’inchiesta, pure molto complessa, e tagliare il traguardo del verdetto. Con l’impegno di tutti, come era stato solennemente promesso nei giorni dello sgomento cittadino, e con l’efficacia di metodi d’indagine innovativi e approfonditi.
In un momento in cui la magistratura italiana si trova esposta a una raffica di accuse e a una pervicace volontà di delegittimazione, il segnale che arriva da questa sentenza è importante, perché rinsalda la fiducia dei cittadini, sia sulla verità di quella scritta che compare in tutti i tribunali, «la legge è uguale per tutti», sia sulla possibilità concreta che le vittime di grandi e piccoli delitti riescano a ottenere la doverosa e pronta tutela dello Stato.
In questo senso, può essere giustificato anche l’aggettivo «esemplare», se lo si consideri come ammonimento a una profonda riflessione collettiva sul valore di quella condizione umana che non dev’essere mai subordinata ad altri interessi, economici, geografici, politici, religiosi. Riflessione utilissima e quanto mai attuale, perché si deve applicare con un’attenzione rigorosa al suo rispetto nel mondo del lavoro, ma anche nelle vicende drammatiche dell’emigrazione o nelle tragiche persecuzioni di tanti cristiani in varie regioni del mondo. Più cautela va usata, invece, se questa rivendicazione di esemplarità potesse giustificare una sproporzione tra pena e delitto, come se le esigenze di un solenne e generico avvertimento pubblico sulla gravità di certi comportamenti autorizzassero a sacrificare il capro espiatorio di turno.
Altrettanta attenzione dev’essere rivolta ai commenti di chi spiega la sentenza con il clima di emotività generato dalla cosiddetta «pressione mediatica» esercitata sui giudici da stampa e tv. È indubbio che il rogo della Thyssen abbia sconvolto i sentimenti dell’opinione pubblica e, in particolare, quelli della città di Torino. La costituzione di parte civile delle istituzioni locali e il riconoscimento del loro diritto, sanzionato dal verdetto, rispecchiano appieno il valore della solidarietà e dell’affetto per i familiari delle vittime espresso in quei giorni dall’intera comunità, nazionale e cittadina. Per comprendere la profondità di quel dolore collettivo, basti ricordare, poi, il significato, anche simbolico, che l’industria e la fabbrica hanno nella storia e nella memoria di Torino.
È giusto, perciò, che angosce e lacrime siano entrati, con la forza delle immagini di carni straziate dalle fiamme, in quell’aula. Ma è altrettanto giusto ritenere che i giudici abbiano trovato convincenti le prove sulla responsabilità dell’imputato nel non applicare le norme di sicurezza che, pure, la casa madre tedesca gli suggeriva, attraverso un cospicuo stanziamento di spesa. Intervento negato, con la scusa di una prossima chiusura dello stabilimento. Saranno anche i giudici di secondo grado a valutare la saldezza di quelle prove, ma l’argomentazione dell’accusa per chiedere la condanna induce a non autorizzare sospetti di una volontà «politica», di una giustizia moralizzatrice e purificatoria.
Era proprio un grande giurista piemontese, storico collaboratore del nostro giornale, Alessandro Galante Garrone, infatti, a diffidare della validità di atteggiamenti generici e strumentali. In un editoriale sulla «Stampa» del 13 giugno 1964, a proposito dell’inchiesta sui presunti reati amministrativi del segretario del Cnen, Felice Ippolito, scriveva parole che è utile ricordare: «Si è parlato, immaginosamente, di bisturi, o di spada tagliente, o magari di scopa vigorosa. Alla radice di queste propensioni, c’è un genuino impulso di rivolta morale; ma c’è anche qualcosa di vagamente inquietante, una visione apocalittica delle cose, una concitazione emotiva che può farci perdere di vista i principi essenziali».
Proprio alla luce di questo alto avvertimento morale, prima ancora che giuridico, è opportuno stigmatizzare altre reazioni che, nella concitazione dei commenti, hanno voluto piegare il verdetto a interpretazioni faziose. Il processo Thyssen non è stato il processo al capitalismo tedesco, attento alla difesa dei lavoratori in Germania e negligente quando si tratta degli operai italiani. La sentenza ha condannato un comportamento specifico di un dirigente. I passaporti del colpevole e quelli delle vittime non devono influenzare i giudizi e, soprattutto, i pregiudizi. Perché la morte degli uomini e la loro coscienza morale non hanno confini.
La Stampa 17.04.11