Lunedì mattina la maestra Pina entrerà in classe. Ha cinquantasei anni e nei due terzi del suo tempo di vita ha insegnato a settecento bambini a leggere, scrivere, far di conto, cercare parole sul vocabolario, capire cosa è un atlante. E poi cercare informazioni in rete sul computer, in una sala ricavata in uncorridoio, con macchine vecchie di tre generazioni, avendo lei voluto testardamente imparare a sua volta, aiutata dai figli. E ha insegnato la storia patria – così si chiama. Sui libri scelti insieme alle colleghe. Accordandosi sul merito delle diverse opzioni che il libero mercato dei libri offre. Come prescrive la legge. Mai scelti per ideologia. Ma perché si capiscono meglio.O sono più idonei a quei bimbi lì. E ha insegnato anche a giocare insieme. Con Nadim che è il più bravo della classe e con Pasquale che ha il padre in carcere e Antonietta che ha un braccio solo. E ha insegnato a cantare. A mettere a posto le cose alla fine della giornata. Ad organizzare la gita fuori città e la visita all’acquario. Mette i bimbi in fila. Vede che si salutano con garbo all’uscita. Si ferma e parla con le mamme del quartiere ogni giorno. Raccoglie le loro lamentele sulla mancanza di lavoro, sui debiti, sulla febbre alta dei fratellini piccoli, sulla nonna incontinente per la quale non ci sono abbastanza pannoloni. Lo fa con serenità, costanza, stile e competenza. Per 1500 euro al mese. Dopo trentacinque anni. Pina è catechista nella parrocchia. Non mi ha mai voluto dire per chi vota perché «il voto è segreto». Dice che la scuola pubblica è il luogo salvo del quartiere. Ed è stata contenta quando la Cei a febbraio ha difeso la scuola dagli attacchi del presidente del consiglio. «Il signor B. – così lo chiama – non può parlare né di famiglia né di scuola. Non è titolato. E mi fermo qui. Perché voglio fermarmi, devo fermarmi. Io sono una persona responsabile. Ho fatto della responsabilità il mio lavoro e la mia vita. Sono fatta così. E ora non dobbiamo innervosirci. Dobbiamo solo tenere ancor meglio la scuola. Tutte le scuole. Anche con poche risorse. Lo dobbiamo al rispetto per noi stessi e per l’Italia. Dobbiamo fare come quando si portavano nel rifugio le poche cose più care durante i bombardamenti della guerra – me lo raccontava mia mamma. Dobbiamo aprirle la scuola alle mamme il pomeriggio. Superare le nostre fatiche e andare avanti più forti di prima. Sì, più forti di prima. E lo possiamo fare. E lo sai perché? Perché siamo noi che portiamo il sole in tasca quando usciamo di casa per andare a scuola. Noi!». Ci sono un milione di persone – persone! – che, ognuno come può e come sa, fanno come fa Pina. La mia collega da sempre. Con bimbi piccoli o ragazzi grandi. E milioni di papà e mamme e nonni gli consegnano ogni giorno i figli e i nipoti. In una scuola che può e deve migliorare, cambiare. Ma che è “il luogo salvo”. Per tutti e per ciascuno. Questo è il momento di andare oltre l’indignazione. Il signor B. vuole trascinarci chissà dove. Invece no. Dobbiamo agire da esercito civile, pacifico e capace, quale siamo: responsabilità e tenuta! Ha ragione Pina: “Siamo noi che abbiamo il sole in tasca ogni mattina. Noi!” C’è da lavorare ancor meglio di prima. Guardarsi in faccia. Essere più gentili l’uno con l’altro tra noi che a scuola viviamo. Trovare soluzioni possibili ogni giorno a una emergenza educativa che è grande. E salvare la scuola. Come in tempo di guerra.
L’Unità 17.04.11