Bersani: PD il pilastro per la riforma repubblicana
Un po’ di crescita e un po’ di giustizia in più è l’unico modo per ricominciare a pensare di essere un paese solo. La leadership non può contare più delle istituzioni, dei partiti e dei singoli individui. “Siamo il partito della Costituzione e dell’Unità d’Italia. Vogliamo essere il partito del secolo nuovo, una sintesi tra tradizioni e innovazione. Ma per essere questo rifugiamo dai nuovismi. Nessun albero può dare frutti se si tagliano le radici”. Così Bersani ha introdotto il suo intervento durante l’iniziativa “150. Con l’Italia. Tutta intera”.
Per il leader democratico “c’è bisogno di un maggiore radicamento del pensiero se si vuole creare un orizzonte di cambiamento. Dobbiamo lavorare per unire politica e pensiero su basi nuove. Una sintesi tra valori costituzionali e valori patriottici: un’energia positiva e vitale”.
“Noi siamo a nostro agio nell’anniversario dei 150 anni d’Italia e notiamo che questo non è accaduto per la destra. Non si confonda il patriottismo con la sua degenerazione nazionalista dei primi del 900; il patriottismo nasce come democratico e popolare, e fu sempre così anche dopo la parentesi fascista. Storpiare questa vicenda è sbagliare la strada da seguire”.
“Nella nostra storia – ha continuato Bersani – Unità e Costituzione sono valori indissolubili che hanno dato il profilo del nostro essere italiani. Sono stati il filo logico, sì conteso ma soprattutto ricercato. Il nostro comune destino”.
“Oggi qualcosa si è rotto. Siamo in una fase transitoria, una fase non risolta che ha creato delle smagliature nel nostro essere nazione. Il 17 marzo scorso ha rappresentato un’invocazione che ha richiesto energia ma che non ha trovato ancora una soluzione. C’è la paura e la preoccupazione di essere lasciati soli, nella vita personale, nel lavoro. La paura per le nuove generazioni. Da qui il nostro impegno, la nostra sfida che ha 3 punti fissi: 1) la sfida tra le piccole patrie e le patrie comuni; 2) le nuove uguaglianze: 3) la nuova democrazia
1) “L’altra faccia delle globalizzazioni, di tutte le globalizzazioni, è la spinta ripiegamento difensivo, a volte fino al conflitto sanguinoso. Una chiusura che porta alla ricerca di comunità omogenee, l’attacco contro il diverso, l’egoismo, il pensare solo a sé stessi. In particolare l’Italia ha vissuto questo processo con l’indebolimento del tessuto comune. Un problema che prende vita da questioni genetiche che non sono mai state risolte. 150 anni fa chi si trovò di fronte a fare i conti con 6/7 sistemi amministrativi, economie diverse, lingue diverse, sistemi scolastici diversi, monete diverse, optò per una centralizzazione burocratica forte. C’era un’unità da fare. Un’unità che però non significava ancora unificazione! Un processo che impattava sui territori che erano ancora statarelli più o meno piccoli. Iniziò un periodo di centralizzazione e tutti gli estremismi erano trattenuti da fatto del rischio di rompere un’unità fragile. La paura di rompere. Nel 1951 Tullio de Mauro si chiedeva perché oltre il 50% fosse ancora analfabeta: l’esigenza di “costruire” prima gli italiani si combinava nell’insegnamento forzato di una lingua fatta di dialetto e l’italiano. E fu proprio il fatto di dover insegnare l’italiano a ritardarne l’apprendimento. Furono le forze politiche popolari a favorire il radicamento nazionale. Si passo dal localismo al senso nazionale: un localismo visto in chiave più ampia, visto in chiave di riforma universale. Una forza unificante.
Oggi tra localismo e la globalizzazione di chiusura ci troviamo ad un bivio. Per noi la risposta è il federalismo ma solo pensato come mezzo più efficiente avvicinare tutti a comuni standard di cittadinanza, a rispettare gli obiettivi dell’articolo 3 della costituzione”.
“Questo – ha continuato Bersani – incide in profondità nel nostro carattere più intimo: siamo dubbiosi di noi stessi ma visti da fuori nessuno è come l’italiano, con i nostri luoghi, i nostri posti e che facciamo, le cose che piacciono a tutto il mondo”.
2) Per Bersani è evidente la presenza di nuove disuguaglianze “che oggi impediscono l’unità del paese e la sua ripresa. Dopo la guerra, con contrattazione collettiva, le politiche sociali, la ripresa economica, l’affermazione della classe media, le disuguaglianze si ridussero. Fu una crescita acquisitiva per i nuovi ceti e la funzione della politica fu determinante. Nei decenni successivi si è assistito progressivamente all’ampliarsi della forbice della disuguaglianza con il conseguente crollo della classe media”. La globalizzazione estremizzata portò la distruzione del lavoro e dell’occupazione fino alla crisi economica e sociale attuale. “Nel ’29 ci fu il new deal, oggi cosa c’è? C’è il rischio che vengano ripresentati i modelli di prima: chiusura e frantumazione del lavoro.
Noi vogliamo la reciprocità tra sud e nord perché quando il sud si allontana dal nord, il nord si allontana dall’Europa. Il progetto del PD punta su parametri di crescita e civilizzazione a partire dal ruolo delle donne, dal contributo dei nuovi italiani, di quelli che sono nati qua e che devono essere cittadini italiani. Chi ha di più deve dare di più in questo processo di coesione. La crescita va letta in una chiave acquisitiva: un po’ di crescita e un po’ di giustizia in più è l’unico modo per ricominciare a pensare di essere un paese solo con un futuro solo”.
3) Le prospettive di democrazia nell’ultimo decennio sono scivolate. Restiamo sì tra i primi dieci paesi del mondo ma rispetto agli altri stiamo scivolando sotto tutti gli indicatori. Ci siamo bevuti un modello populista che ha portato la destra. Ma è un modello che non può produrre riforme ma solo disgregare attraverso la personalizzazione estrema. Con il populismo non si possono avere soluzioni ma solo pratiche per ottenere il consenso nel breve termine. Si acquista consenso ma non si dà risposte: infatti non c’è nessuna riforma durante il periodo di Berlusconi.
“La democrazia deve invece risolvere i problemi e farlo attraverso la partecipazione. Ora c’è la sua deligittimazione perché non è in grado di prendere decisioni. “Stiamo assistendo alla riforma della democrazia rappresentativa. Dobbiamo quindi esercitarci per un riforma repubblicana che riguarda il Parlamento, riguarda la legge elettorale (che sia espressione della volontà popolare), che riguarda i partiti: i partiti (e noi rivendichiamo il fatto di essere gli unici ad aver scelto di chiamarci partito) servono a tenere insieme questo paese. Non servono capi e capetti ma maggioranze che tengano. La leadership non può contare più delle istituzioni, dei partiti e dei singoli individui. Serve una legge sui partiti per la loro trasparenza, il loro finanziamento, la loro gestione. Leggi liberali e leggi civiche impostate sulla reciprocità, civismo. La riforma repubblica passa anche e soprattutto dalla ripresa del sogno europeo troppo abbandonato dalle scelte di chiusura”.
Bersani ha chiuso il suo intervento con due citazioni. Una di Alexis de Toqueville legata al fatto che “le repubbliche democratiche rendono immateriale il dispotismo” ma – ha aggiunto il leader democratico “non è detto che liberarsi di una persona significhi liberarsi del problema”.
L’altra citazione è quella di Antonio Gramsci che disse “noi fummo travolti dagli avvenimenti, dalla dissoluzione generale della società italiana diventata un crogiolo incandescente. Noi – ha concluso Bersani – non saremo una parte della crisi, noi saremo la soluzione”.
Andrea Draghetti
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