Due giorni fa il Consiglio dei ministri, pressato dalle urgenze del processo breve, ha approvato in meno di 60 minuti il Documento di economia e finanza (Def) 2011 presentato dal ministro dell´Economia. Si compone, il Documento, di tre volumi (con un´appendice): uno con il programma di stabilità, uno sulle analisi e tendenze della finanza pubblica e un Piano nazionale di riforma (Pnr), per un totale di circa 400 pagine (al netto delle comuni premesse), che occupano, elettronicamente, circa 11 Mb. Si è proceduto con troppa fretta? Non necessariamente.
Per certo, la lettura del Pnr, il volume più corposo, è apparentemente ostica. Attento studio parrebbe necessario per comprendere gli incroci fra una complessa tassonomia di azioni e misure e le classificazioni comunitarie ispirate a Lisbona: fin quando ci si rende conto che quelle comunitarie sono solo cornici al nulla. Così, si apprende che, ma non si comprende come, abbiamo sinora attuato 87 (ottantasette) “azioni prioritarie discendenti dall´annual growth survey e dagli specifici impegni di policy del patto europlus”. Si voltano allora le pagine con ansia per giungere all´ultimo capitolo, intitolato “Le riforme dell´Italia”. Ma quelle 52 non agili pagine suscitano memoria della seconda parte degli antichi (e deprecati) documenti di programmazione economica e finanziaria (i Dpef padri del Def): quella che un sempre indifferente ministro dell´Economia, allora come oggi, lasciava a disposizione dei suoi colleghi perché sfogassero il loro grafomane occorrismo (termine non più riferibile solo alla sinistra). Oggi come allora, manca qualsiasi indicazione operativa (e come tale controvertibile) a quelle generiche enunciazioni, vaghe e sommarie anche sul tema della riforma tributaria.
Ma avrebbe ben ragione il ministro dell´Economia a ricordarci che (in sigle) il Def non è solo Pnr. Vi è una parte rigorosa, ricca di informazioni, e soprattutto interessante per le sue implicazioni di politica economica: quella dedicata al quadro macroeconomico e, in esso, alla finanza pubblica, materia su cui gli altri ministri non avrebbero potuto (e forse saputo) interloquire.
Nel prossimo triennio la crescita resterà all´uno virgola, con lenta salita all´1,6 nel 2014, quando il prodotto reale non sarà ancora tornato al livello del 2007: se c´è stata una frustata, il cavallo non se ne è accorto e non se ne sono accorti al ministero dell´Economia. La bassa crescita non ha impedito che nel 2010 l´indebitamento delle pubbliche amministrazioni fosse più basso del previsto, grazie al contenimento delle spese; ma ha fatto crescere più del previsto il rapporto fra debito e Pil. Negli anni a venire si prevede un ulteriore contenimento della spesa rispetto al Pil: dopo un collasso di oltre il 16 per cento nel 2010, gli investimenti fissi pubblici continueranno a cadere, anche in termini assoluti (con buona pace delle imprese di costruzione); si ridurranno in quota i redditi dei dipendenti. La pressione tributaria e quella fiscale (che include i contributi) resterà invariata al notevole livello del 42 e mezzo per cento del prodotto (se le promesse fossero veramente debito, occorrerebbe aprire una contabilità speciale per i manifesti del partito di maggioranza). Questa rigorosa anche se doverosa austerità non basta tuttavia a consentire il rispetto degli obiettivi europei di una più rapida riduzione del rapporto fra debito e prodotto e di consolidamento della situazione finanziaria. Per raggiungerli, si deve mettere in conto una manovra correttiva di oltre 2 punti di Pil in due anni: non in questo anno, però, o nel prossimo, ma convenientemente rinviata al 2013-2014; dunque senza costi politici immediati per il governo ora in carica e in onere invece a quello che uscirà dalle elezioni.
Difficilmente si può eccepire all´impostazione del ministro sulle questioni di finanza pubblica (se non al suo pur comprensibile opportunismo nella collocazione temporale della correzione). Ma il problema del perpetuarsi dell´uno virgola di crescita resta irrisolto: la vacuità del Pnr pone la sordina a una seria discussione di riforme mirate e non costose, come quelle spesso elencate da Tito Boeri e da altri colleghi. Si deve convenire con Giampaolo Galli (Il Sole del 13 aprile): “tenere i conti” è necessario, ma non basta; alla lunga, «se non riparte la crescita, non si risolve neanche il problema del debito».
La Repubblica 15.04.11
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“Una manovra senza coraggio”, di Roberto Perotti
Il ministro Tremonti ha il merito di avere limitato il deterioramento dei saldi di bilancio durante la grande recessione, al contrario di altri Paesi. Lo ha fatto lottando contro pressioni di ogni tipo, raggranellando milioni di entrate e risparmiando milioni di spese qua e là. Ma usciti o quasi dall’emergenza, è ora necessario andare oltre ai saldi, e domandarsi se l’Italia voglia rimanere per sempre un’economia dove la spesa pubblica vale oltre la metà del Pil, e la pressione fiscale è costretta ad adeguarsi. Se la risposta è no, allora è arrivato il momento di chiedersi come attuare quelle riforme strutturali della spesa che finora sono mancate. Ma le risposte non si troveranno nel Documento di economia e finanza per il 2011, né nel Programma di stabilità. Con un Governo afflitto da problemi di immagine al vertice, impegnato a prevenire l’erosione di una esigua maggioranza, e a due anni dalle elezioni, per lungo tempo non si parlerà di azioni serie sulla spesa.
Il migliore indicatore dell’azione governativa è il saldo di bilancio primario aggiustato per il ciclo economico, cioè il saldo di bilancio al netto degli interessi sul debito (il cui livello dipende solo minimamente dal governo attuale, e soprattutto dallo stock di debito accumulato in precedenza) e depurato dagli effetti del ciclo economico (il saldo peggiora automaticamente se l’economia è in recessione, senza colpa del Governo).
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Il Governo prevede un miglioramento costante di tale saldo, di circa tre punti percentuali da qui al 2014, in gran parte dovuto a riduzioni di spesa. Apparentemente, questo è un aggiustamento ragguardevole. Ma è da prendere con molta cautela, per due motivi: si basa su stime ottimistiche, ed è frutto in gran parte di misure saltuarie o non specificate, non di cambiamenti strutturali alla dinamica della spesa.
Prendendo il 2012 come esempio, il Governo stima che i provvedimenti presi nel 2010 ridurranno il disavanzo di circa 25 miliardi, oltre 1,7 punti di Pil. Ma gran parte degli effetti sono imputati a due misure, la lotta all’evasione e il patto di stabilità con gli enti locali, entrambe basate su assunzioni da verificare, e che storicamente hanno sempre dato risultati deludenti.
Un’altra fonte di risparmi riguarda i salari pubblici, frutto del blocco del turnover, che non può essere ripetuto all’infinito. Il Governo continua a prevedere cospicui risparmi su questa voce fino al 2014, ma non è chiaro su che base concreta.
Successivamente, con la Legge di stabilità e quella di bilancio, il Governo ha rimodulato i numeri iniziali, in apparenza senza modificare i saldi, al fine di consentire una serie di nuove piccole spese. Queste sono state finanziate, nel 2011, con la più tipica delle entrate una tantum, i proventi delle aste delle frequenze digitali, e da una serie di piccole modifiche a tanti capitoli d’entrata, dagli effetti estremamente incerti, quali «maggiori verifiche, controlli e sanzioni a giochi e lotterie», la «razionalizzazione delle riduzioni delle sanzioni» e i soliti fantomatici «effetti indotti». Niente di nuovo o di peggio rispetto al passato, ma non certo materia da grande riforma della politica di bilancio.
Tutto questo rende il miglioramento del saldo primario estremamente aleatorio. Ma se anche si realizzasse, poco o niente in queste misure ha la natura di una riforma strutturale che riduca finalmente il peso della spesa pubblica. E senza interventi sulla spesa, la pressione fiscale non potrà scendere, come riconosce il Governo.
In teoria, le riforme strutturali sono affidate al Programma nazionale delle riforme. Ma questo documento dimostra ancora una volta che i programmi di bilancio a medio termine sono armi a doppio taglio, in Italia come in altri Paesi. Da un lato il Governo deve poter pianificare la propria azione su un periodo di più anni; dall’altro questi programmi multiannuali diventano quasi inevitabilmente una scusa per posporre ogni azione seria, rimandandola al futuro senza peraltro essere costretti a offrire misure specifiche.
L’esperienza internazionale dimostra che i risanamenti di bilancio duraturi, basati in gran parte su riduzioni di spesa, sono fatti prendendo il toro per le corna, partendo con il botto: riducendo le spese drasticamente nei primi due anni, e poi consolidando gradualmente i risultati raggiunti, magari aggiungendo una riduzione delle tasse per mostrare che i sacrifici richiesti servono a qualcosa. Con i piccoli decimali di punto percentuale si evitano gli slittamenti in periodi d’emergenza, come ha fatto Tremonti in questi due anni, ma non si cambia lo status quo.
Ma questo Tremonti lo sa, così come sa – e non si stanca di ripeterlo – che è facile per un accademico parlare di riforme strutturali, mentre la realtà politica è ben più complicata. Su questo ha perfettamente ragione, ed è per questo che per i prossimi anni non è il caso di farsi illusioni.
Il Sole 24 Ore 15.04.11
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“Montezemolo a Tremonti: poca ironia, ora i risultati”. di Celestina Dominelli
Ammette di non aver ancora esaminato il programma nazionale di riforme varato dal Consiglio dei ministri. «Lo leggerò con attenzione, non mi piace dare giudizi su cose che non conosco». Ma Luca Cordero di Montezemolo, presidente della fondazione Italia Futura e della Ferrari, giudica fuori luogo la battutta con cui, mercoledì dopo l’ok al Pnr, Giulio Tremonti ha risposto all’appello della leader di Confindustria, Emma Marcegaglia, sulla solitudine delle imprese («è durata solo pochi giorni», aveva detto il ministro dell’Economia). «C’è poca ironia da fare – replica Montezemolo – vista la situazione di mancata crescita e soprattutto di mancata iniziativa di politica economica. Sarebbe meglio mettersi tutti con meno battute e più impegno e più risultati. Condivido pienamente l’opinione di Emma Marcegaglia».
L’ex numero uno di Viale dell’Astronomia mostra poi di aver apprezzato il richiamo del governatore di Bankitalia, Mario Draghi, sulla necessità di riforme strutturali («è significativo e condivisibile»). E invece bacchetta Silvio Berlusconi e la sua maggioranza. Così, quando i cronisti gli chiedono se vi sia distanza tra il paese reale e quello che si discute in Parlamento, Montezemolo scandisce bene le parole. «Fortunatamente c’è un paese reale che sta reagendo e che si sta dando da fare, che ha voglia di occuparsi del bene comune e non solo degli affari propri. Quelli che io chiamo “italiani ignoti” che sono una grande forza del Paese malgrado una politica sempre più lontana dai problemi veri, dalle esigenze vere e dalle scelte coraggiose che bisogna assolutamente fare».
Montezemolo critica anche la sforbiciata ai fondi per la ricerca. Tagli che definisce «gravissimi, scandalosi e masochistici», frutto di decisioni di una classe politica «che non ha a cuore il futuro del nostro Paese». L’Italia, osserva ancora il presidente della Ferrari, «è il Paese che investe di meno in Europa in ricerca». E, invece, se fosse per lui, «anziché tagliare lì, taglierei le inefficienze oppure sui consigli di amministrazione che servono a solo a sistemare politici trombati. Sento parlare di tagli da tutte le parti tranne nella politica. E qualche ministro anziché tagliare con il laser fa tagli trasversali».
Infine il nodo della sua discesa in campo. «Viviamo in un Paese strano, in cui la classe politica ritiene di essere l’unica autorizzata a parlare delle cose pubbliche e se tu vuoi parlarne, ti rispondo: entra, scendi in politica. Io invece – conclude ironico Montezemolo alludendo all’iniziativa presentata ieri (un accordo con Federparchi per raccogliere fondi per Telethon che lui presiede) – scendo nei parchi». Ma qualcuno, come il vicepresidente di Fli Italo Bocchino, è già pronto ad accoglierlo a braccia aperte. «Montezemolo? Se c’è un soggetto forte che fa parte della società civile e che scende in campo, siamo interessati».
Il Sole 24 Ore 15.04.11