Viani è la vita che ci rimane da guardare. Schiaccia come un ossesso i pulsanti colorati della Fattoria degli animali, ride a crepapelle ogni volta che saltano fuori il cane e la mucca. Il cane è meglio non toccarglielo, se no s’arrabbia e molla spintoni. A cinque anni, il gelo e il terrore di mercoledì mattina — tra onde furiose e strilli e lacrime— fanno presto a sciogliersi in avventura, qui, nel corridoio dell’ospedale «Nagar» che pare la bottega di un giocattolaio. Tante mamme e tanti papà di Pantelleria hanno portato qualcosa ai figli di Leonie e Camille Fuamba: le favole di Pinocchio, i fumetti di Pimpa, Toy Story, bambolotti e cioccolatini, sicché questa giornata di sole e calore può sembrargli anche Natale, se mai qualcuno gli ha spiegato cos’è. Quando cercherà di ricordare sua madre, gli verranno in mente palloni di gommapiuma, orsi di peluche, una lingua incomprensibile ma zuppa d’amore, queste carezze. «Non sta fermo un momento» , sussurra Caterina Giglio, una delle volontarie che se lo coccolano da quando è arrivato all’ospedale con papà Camille, i suoi due fratelli e le sue due sorelle, lasciando sulla spiaggia il cadavere di mamma Leonie sotto una coperta bianca e marrone. Viani è l’unico dei cinque figli di Leonie cui non hanno detto nulla. A Ily, di appena due anni più grande, il padre ha dovuto dirlo, quando l’ha visto vagare tra le corsie strillando maman, maman!: mamma non c’è più. Adesso Camille è disteso su un letto della stanza E, nel corridoio parallelo a quello dei giochi, svuotato dal dolore, con una flebo nel braccio, una felpa azzurra, gli occhi fissi al soffitto: «Merci, monsieur, merci» , ripete a chiunque gli si avvicini. Ily ha pianto per la mamma, ma è un ometto in tuta bianca da calciatore, fa una smorfia tosta: «Mi piace l’Italia, mi fanno un sacco di regali, vorrei restare» . Forse resterà, assieme ai fratelli e alle due sorelle ormai ragazzine. Il sindaco Di Marzio ha letto nel cuore della sua gente, ha avviato le pratiche per tenere i Fuamba qui, dove Leonie sarà sepolta, in asilo umanitario: emigrati dal Congo in Libia, scappati dalle bombe di Misurata dove Camille faceva il muratore, straziati dal mare. Difficile immaginare ragioni umanitarie più evidenti. Pantelleria s’è stretta attorno ai 190 scampati al naufragio sugli scogli dell’Arenella. Certe volte l’Italia racconta ancora storie che scaldano, certe volte non dice foeura di ball. E questa storia la puoi leggere negli occhi dei sub che sotto il barcone dei migranti hanno quasi rischiato la pelle: Battista, che ancora si commuove a rivedere quelle facce, risentire quegli strilli, «mica pensi al pericolo, ti tuffi e basta» ; Filippo, che ricorda «la responsabilità, Dio mio, la responsabilità di dire a qualcuno buttati in acqua che ti salvo io…» ; Antonello, che fa il duro ma pensa ai piccoli, «sei bambini, i cinque Fuamba e una di appena un anno, là, su quel legno che affondava!» . È una storia che stava scritta in faccia a Mimmo Lo Giudice, il carabiniere che ha salvato Viani. Ma anche ai tre finanzieri che si sono buttati con lui: Ettore Mondoni e Nazareno Donzelli, poco più che ragazzi, e il brigadiere capo Gaetano Spanò, uno di quei sottufficiali scafati che capiscono le cose quasi prima che succedano. Ettore e Nazareno sono i due che in una foto ormai famosa tirano fuori dall’acqua una poveretta coi capelli dritti in testa e uno scialle arancione sulle spalle: «Non riusciva a respirare, era stravolta» , raccontano con pudore. «Viani urlava “Papà, bateau! Papà, bateau!”. Non voleva mollare il padre sulla barca» , dice Spanò, che allora ha passato il bambino al carabiniere Lo Giudice, «aiutalo tu, collega» , ed è tornato indietro a fare la catena umana per acchiappare Camille. Così hanno salvato 190 vite, i nostri ragazzi in divisa assieme alla gente di qui, ma ancora piangono per le vite perdute, quella di Leonie e quella di Chinga, appena 28 anni, che veniva dalla Nigeria e sperava di diventare mamma in Italia. Nella caserma della Brigata Etna, ai tre finanzieri arriva adesso la telefonata del comandante generale Nino Di Paolo: «Questi atti di solidarietà nascono da cose semplici. Bravi. Attraverso voi dico grazie a tutte le fiamme gialle che lavorano ogni giorno in quest’emergenza, per il Paese» . Cose semplici, sì, e questa è gente semplice, che fa la catena umana in mare, o che il mare lo fruga per salvare altra gente. Come i piloti Signorelli e La Torre, su Volpe 146, l’elicottero della Finanza che ci porta da Lampedusa a Pantelleria. Cinquanta minuti di volo, quota mille piedi, vento cinque nodi, una bava tranquilla, pare impossibile che nel blu qui sotto si possa morire. Chiamano target, in gergo, quelle ombre bianche che appaiono sul radar: barche di pescatori, quasi sempre; gusci dove le vite sono in gioco, qualche volta. È un guscio squarciato il barcone dove sono arrivati Camille, Leonie, i bambini e gli altri migranti. Eccolo là, sugli scogli aguzzi dell’Arenella, con le onde che ancora gli scherzano addosso. Dal porto si arriva in fretta all’ex caserma Barone, che adesso è il centro di raccolta dell’isola. I migranti scampati, tutti quelli che non stanno in ospedale, sono qui e tra qualche ora partiranno per Trapani, dove si deciderà la loro sorte. Sulle reti di recinzione pantaloni, magliette, felpe ad asciugare. Nelle camerate, distese di materassi. Si alza «Breznev» , congolese: «C’era un battello che ci teneva d’occhio» , dice in francese, «poi hanno chiamato la costa italiana, è arrivata una barca militare e ci hanno detto di seguirli. Ma troppi scogli c’erano, io lo dicevo che non ce la facevamo! Gli italiani però sono stati bravi, hanno fatto del loro meglio per aiutarci» . Noi siamo capaci di avvelenare anche il coraggio: troppo tempo per intervenire, dice qualcuno, e adesso le ombre si allungano. Ma i salvati difendono i salvatori: «Non biasimo proprio nessuno, l’aiuto era buono, siamo arrivati a due metri…» , dice George, 31 anni, nigeriano. È il ragazzo di Chinga, tiene tutto dentro, racconta la scena in inglese come fosse successa a un altro: «Volevo darle un salvagente, un’onda mi ha buttato giù. Quando sono risalito, non l’ho più vista. Avevamo perso un bambino, volevamo farne un altro, qui da voi. Magari resto in Italia, ma non m’importa più molto» . All’ospedale, il direttore Luca Fazio dice che tre anni fa «sono arrivati due persino con l’acquascooter dalla Tunisia» , questa storia non finisce mai, «ma l’isola ha dato una grande prova» . Giovanni Leone («sì, come il presidente…» ), un giovane dottore, ci accompagna tra i migranti ricoverati: «È la prima volta che mi sono sentito medico sul serio» . A volte capita: dopo che noi avremo salvato loro, loro salveranno noi.
Il Corriere della Sera 15.04.11