Pochi mesi dopo l’approvazione della riforma Gelmini, le università italiane sono impegnate in un compito davvero difficile: sopravvivere. I tagli al sistema dell’istruzione e della ricerca sono avvenuti prontamente, mentre l’attività di normativa secondaria procede con lentezza, nonostante le rassicurazioni del ministro.
Gli atenei si ritrovano ad affrontare un vero e proprio ginepraio normativo, a cui è ormai appesa la didattica.
Inoltre, a parte qualche normativa di minutissimo calibro, il governo non ha ancora adottato alcuno dei provvedimenti fondamentali – sono decine – per l’attuazione della legge. Lo schema di regolamento per l’abilitazione scientifica (passaggio fondamentale per l’accesso al ruolo dei professori) ha ricevuto un pesante parere negativo da parte del consiglio di stato. È il caso di essere realisti: un governo agonizzante non può essere in grado di adottare tutti gli atti necessari per dare gambe a una riforma che, altrimenti, si risolve nell’incertezza più totale e nel blocco delle attività ordinarie degli atenei. Proprio in questo ritardo preoccupante, troviamo la conferma delle nostre osservazioni dei mesi precedenti: abbiamo più volte sottolineato come la centralizzazione burocratica non sia la strada giusta per imprimere una svolta reale al sistema.
Anche se non vale la pena di essere catastrofisti, dobbiamo rilevare che la riforma Gelmini, nel suo cammino accidentato, segna una scelta strategica del governo, in controtendenza rispetto a tutti i paesi con cui ci confrontiamo: la rinuncia a fare dell’università il luogo centrale della promozione di nuove risorse umane, in grado di diventare l’ossatura di un nuovo modello di sviluppo del nostro paese.
È il caso di ribadirlo: siamo l’unico paese in cui il governo risponde al crollo delle immatricolazioni dicendo ai giovani di riscoprire l’umiltà e il lavoro manuale, mentre taglia le risorse necessarie per costruire il futuro dell’economia italiana. Noi democratici prendiamo finora un impegno inderogabile: una volta al governo, ridurremo il peso della spesa pubblica sul bilancio dello stato, come richiesto anche ieri dal presidente Napolitano, per reinvestire su settori irrinunciabili come l’università e la ricerca, dato che l’Italia, per competere in un nuovo scenario globale, ha bisogno di più laureati e di più ricercatori.
Nella nostra azione, ci basiamo su tre considerazioni: l’immediatezza, il riformismo, il metodo. Sul primo punto, dobbiamo intervenire perché gli atenei escano da una situazione di incertezza cronica: incertezza sull’inizio dei corsi di dottorato, sul rinnovo degli assegni di ricerca, sul reclutamento a tempo determinato.
Su queste necessità pressanti concentriamo la nostra azione in parlamento, cercando di influire con proposte di legge per rendere operative le università mentre va avanti un “cantiere normativo infinito” che peraltro non coinvolge gli atenei nella programmazione del loro futuro. Lo dobbiamo alle persone delle nostre università e lo dobbiamo ai nostri ragazzi, che oggi finiscono il liceo e non sanno se potranno continuare gli studi, usufruendo di un diritto costituzionale.
Il secondo aspetto è il cardine del nostro riformismo: la contrapposizione tra questa riforma e l’università che vogliamo costituire. Il che non implica la negazione della necessità di un rinnovamento, ma il rifiuto della scelta strategica del governo di colpire l’istruzione come fattore di mobilità sociale, impoverendo il sistema nel suo complesso.
Tra i sostenitori di una riforma dell’università, tuttavia, pensiamo vi fossero molti che vogliono un’università più efficiente, in cui la valutazione non sia un’utopia e in cui vi siano regole più semplici e più chiare sulla governance e le carriere.
Perciò, vogliamo discutere con tutti quelli che hanno lanciato l’allarme sulla dequalificazione dell’istruzione universitaria in Italia, perché si tratta di un fenomeno precedente all’azione deteriore del governo.
Il metodo con cui vogliamo dialogare con queste realtà è la necessaria connessione tra economia e società, allo scopo di coinvolgere le migliori energie accademiche e intellettuali del paese. Per tornare a crescere, l’Italia ha bisogno di un dibattito di lungo respiro sulla sua università, e questo dibattito non può limitarsi agli addetti ai lavori, ma deve coinvolgerci tutti. Per questo, a partire dalla giornata di oggi, noi democratici avvieremo un cammino di ascolto ed elaborazione programmatica che ci porterà a tenere a fine anno la Conferenza nazionale dell’università e della ricerca.
L’università che ci meritiamo
Pochi mesi dopo l’approvazione della riforma Gelmini, le università italiane sono impegnate in un compito davvero difficile: sopravvivere. I tagli al sistema dell’istruzione e della ricerca sono avvenuti prontamente, mentre l’attività di normativa secondaria procede con lentezza, nonostante le rassicurazioni del ministro.
Gli atenei si ritrovano ad affrontare un vero e proprio ginepraio normativo, a cui è ormai appesa la didattica.
Inoltre, a parte qualche normativa di minutissimo calibro, il governo non ha ancora adottato alcuno dei provvedimenti fondamentali – sono decine – per l’attuazione della legge. Lo schema di regolamento per l’abilitazione scientifica (passaggio fondamentale per l’accesso al ruolo dei professori) ha ricevuto un pesante parere negativo da parte del consiglio di stato. È il caso di essere realisti: un governo agonizzante non può essere in grado di adottare tutti gli atti necessari per dare gambe a una riforma che, altrimenti, si risolve nell’incertezza più totale e nel blocco delle attività ordinarie degli atenei. Proprio in questo ritardo preoccupante, troviamo la conferma delle nostre osservazioni dei mesi precedenti: abbiamo più volte sottolineato come la centralizzazione burocratica non sia la strada giusta per imprimere una svolta reale al sistema.
Anche se non vale la pena di essere catastrofisti, dobbiamo rilevare che la riforma Gelmini, nel suo cammino accidentato, segna una scelta strategica del governo, in controtendenza rispetto a tutti i paesi con cui ci confrontiamo: la rinuncia a fare dell’università il luogo centrale della promozione di nuove risorse umane, in grado di diventare l’ossatura di un nuovo modello di sviluppo del nostro paese.
È il caso di ribadirlo: siamo l’unico paese in cui il governo risponde al crollo delle immatricolazioni dicendo ai giovani di riscoprire l’umiltà e il lavoro manuale, mentre taglia le risorse necessarie per costruire il futuro dell’economia italiana. Noi democratici prendiamo finora un impegno inderogabile: una volta al governo, ridurremo il peso della spesa pubblica sul bilancio dello stato, come richiesto anche ieri dal presidente Napolitano, per reinvestire su settori irrinunciabili come l’università e la ricerca, dato che l’Italia, per competere in un nuovo scenario globale, ha bisogno di più laureati e di più ricercatori.
Nella nostra azione, ci basiamo su tre considerazioni: l’immediatezza, il riformismo, il metodo. Sul primo punto, dobbiamo intervenire perché gli atenei escano da una situazione di incertezza cronica: incertezza sull’inizio dei corsi di dottorato, sul rinnovo degli assegni di ricerca, sul reclutamento a tempo determinato.
Su queste necessità pressanti concentriamo la nostra azione in parlamento, cercando di influire con proposte di legge per rendere operative le università mentre va avanti un “cantiere normativo infinito” che peraltro non coinvolge gli atenei nella programmazione del loro futuro. Lo dobbiamo alle persone delle nostre università e lo dobbiamo ai nostri ragazzi, che oggi finiscono il liceo e non sanno se potranno continuare gli studi, usufruendo di un diritto costituzionale.
Il secondo aspetto è il cardine del nostro riformismo: la contrapposizione tra questa riforma e l’università che vogliamo costituire. Il che non implica la negazione della necessità di un rinnovamento, ma il rifiuto della scelta strategica del governo di colpire l’istruzione come fattore di mobilità sociale, impoverendo il sistema nel suo complesso.
Tra i sostenitori di una riforma dell’università, tuttavia, pensiamo vi fossero molti che vogliono un’università più efficiente, in cui la valutazione non sia un’utopia e in cui vi siano regole più semplici e più chiare sulla governance e le carriere.
Perciò, vogliamo discutere con tutti quelli che hanno lanciato l’allarme sulla dequalificazione dell’istruzione universitaria in Italia, perché si tratta di un fenomeno precedente all’azione deteriore del governo.
Il metodo con cui vogliamo dialogare con queste realtà è la necessaria connessione tra economia e società, allo scopo di coinvolgere le migliori energie accademiche e intellettuali del paese. Per tornare a crescere, l’Italia ha bisogno di un dibattito di lungo respiro sulla sua università, e questo dibattito non può limitarsi agli addetti ai lavori, ma deve coinvolgerci tutti. Per questo, a partire dalla giornata di oggi, noi democratici avvieremo un cammino di ascolto ed elaborazione programmatica che ci porterà a tenere a fine anno la Conferenza nazionale dell’università e della ricerca.
da Europa Quotidiano 14.04.11