«L’antipolitica? È l’altra faccia del populismo». Lo dice Pier Luigi Bersani in «Per una buona ragione», il libro-intervista al segretario del Pd a cura di Miguel Gotor e Claudio Sardo che esce oggi per i Saggi Tascabili Laterza (pagine 208, euro 12,00). In questo passaggio, l’analisi delle origini della sfiducia nella politica ed i suoi esiti. È il manifesto politico, culturale e civile di Bersani, che in queste pagine parla per la prima volta in un libro dell’Italia e del Pd nel tempo della crisi economica e dei grandi mutamenti della globalizzazione. Compresi gli errori del centrosinistra, l’involuzione plebiscitaria e gli squilibri sociali del Paese.
Gli affanni della democrazia hanno una dimensione globale, ma in Italia hanno assunto caratteri specifici. La transizione istituzionale, avviata nel nome della democrazia diretta dopo l’esplosione di Tangentopoli, e il successo dei referendum elettorali hanno prodotto un «presidenzialismo di fatto» che mortifica il Parlamento e un bipolarismo di coalizione che non garantisce governi efficaci. Qual è la sua lettura di questa ormai lunga stagione?
«Con la torsione plebiscitaria che Silvio Berlusconi ha imposto al sistema istituzionale e con la legge elettorale, giustamente battezzata Porcellum, abbiamo raggiunto un punto molto critico: è a rischio la tenuta stessa dell’equilibrio costituzionale, e non sappiamo cosa sarebbe già accaduto se nel ruolo di garante al Quirinale non ci fosse un uomo della statura di Giorgio Napolitano. Per rispondere alla domanda sulla transizione, ovvero sul perché e sul come siamo giunti fin qui, ritengo però necessario ripercorrere un tratto più lungo della storia repubblicana. A me non convince questa periodizzazione fondata sulla separazione tra Prima e Seconda Repubblica e non mi persuade l’idea che la transizione sia cominciata negli anni tra il ’92 e il ’94. Per cogliere l’inizio della crisi democratica si deve tornare almeno agli anni Settanta. La nostra transizione comincia lì, non con i referendum elettorali che semmai furono un tentativo di uscire dall’involuzione e dal blocco di sistema degli anni Ottanta e che certo produssero cambiamenti nella configurazione e nelle regole della rappresentanza. Se vogliamo davvero chiudere questa lunga stagione, è necessario comprendere le ragioni più profonde della crisi della politica, perché cercare la soluzione solo in un meccanismo istituzionale o in un modello elettorale rischia di essere illusorio».
Onorevole Bersani, spieghi meglio come intende dividere i tempi della storia della Repubblica.
«La prima fase della Repubblica, che affonda le radici nella Resistenza e nel Cnl, va dall’Assemblea costituente alla fine degli anni Sessanta. Sono gli anni della ricostruzione e dello sviluppo dopo il dramma della guerra. È il tempo in cui i partiti che hanno fatto la Costituzione si caricano di importanti e riconosciute funzioni nazionali: fare uscire il Paese dalla miseria, imparentarlo con la democrazia, accompagnare l’emancipazione civile e culturale di un popolo. Erano appunto grandi partiti popolari che, pur nei rigidi confini imposti dalla logica dei blocchi, innervavano la società e animavano le istituzioni rappresentative». (…)
Ma quando e perché, secondo lei, è entrato in crisi quel modello?
«Alla fine degli anni Sessanta la società ha cominciato a conoscere un certo benessere e a pretendere di più. La nuova generazione, quella dei baby boomers cresciuti senza il trauma della guerra, ha cercato nuovi orizzonti, si è ribellata alle regole patriarcali, ha moltiplicato le istanze libertarie. Il ’68 è il punto di svelamento più clamoroso della crisi del vecchio equilibrio politico, anche se le tracce della crisi si possono trovare prima. Nelle sue memorie Giorgio Amendola racconta di una direzione del Pci in cui con preoccupazione si cominciò a parlare di un crescente disimpegno dei giovani dalla militanza politica: eravamo a pochi giorni dalla rivolta delle «magliette a strisce» del 1960 a Genova contro il governo Tambroni! A contribuire alla crisi è anche la scoperta che la crescita economica non ha una progressione infinita. Gli italiani conoscono la «congiuntura» e classificano presto la parola come negativa. Già negli anni Sessanta emergevano pulsioni ed esperienze che oggi chiameremmo di «società civile» che pretendevano politicità e che non trovavano espressione convincente nell’assetto politico. Sono le emergenze (il petrolio, la guerra del Kippur, poi il terrorismo) a ridare ruolo e funzione ai partiti popolari e a tacitare quei fermenti. Sono Aldo Moro ed Enrico Berlinguer i leader autorevoli che fanno appello alle radici costituenti, al capitale di credibilità ancora disponibile, per difendere i capisaldi della Repubblica, e con essi i partiti che sono stati i principali artefici dell’allargamento della sua base democratica. Fu quella l’ultima possibilità di uscire dalla logica dei blocchi restando nel solco di una politica che continuasse a essere legittimata dalla fase costituente e potesse aprire prospettive di rinnovamento per la democrazia italiana. Ma il deterioramento della politica, intanto, scorreva come un fiume carsico. Ho un ricordo vivissimo della festa nazionale dell’Unità del ’77, a Modena, perché ero tra i volontari: Berlinguer aveva appena finito di parlare davanti a una folla sterminata, aveva detto che pochi «untorelli» a Bologna non sarebbero bastati per far deragliare il Pci dalla sua linea di responsabilità nazionale, ma un paio d’ore dopo un’altra folla gigantesca, in parte composta dalle stesse persone che avevano applaudito Berlinguer, invase l’arena per ascoltare il concerto di Edoardo Bennato con il suo «sono solo canzonette» contro gli impresari di partito, e in fondo contro gli stessi partiti. Ecco, quel sentimento, che negli anni si è nutrito, da un lato, di autoreferenzialità della politica, dall’altro di crescente sfiducia e distacco, ha prodotto il nodo di una rappresentanza irrisolta che ha progressivamente coinvolto sia i partiti che le istituzioni».
Secondo un’interpretazione diffusa questa sarebbe la storia dell’antipolitica che alla fine ha prevalso sulla politica. Lei cosa ne pensa?
«La realtà è più complessa e sarebbe assurdo classificare come antipolitica tutto l’intreccio di fenomeni, di domande sociali, di umori libertari, di modernità e di secolarizzazione che si è dipanato negli ultimi quattro decenni. Noi abbiamo conosciuto un blocco politico, dovuto a ragioni di carattere internazionale, che ha impedito l’alternanza fisiologica e che poi negli anni Ottanta, ai tempi del cosiddetto «Caf» è diventato una cappa insopportabile. Una vera strozzatura democratica in cui le staffette a Palazzo Chigi tra leader del pentapartito non poteva valere come surrogato di una vera democrazia dell’alternanza. Il sentimento antipolitico e antipartitico, che pure ha origini antiche nella cultura del nostro Paese, è un fiume che ha corso lungo questo alveo e si è gonfiato progressivamente, talvolta alimentato anche da sinistra. Va detto che una grande spinta è venuta dall’incapacità dei partiti e delle istituzioni di riformarsi e di ricostruire circuiti trasparenti di partecipazione. Così, quando è caduto il Muro, mentre la Germania ha avviato la straordinaria macchina dell’unificazione e in tutti i paesi che uscivano dal blocco sovietico si aprivano delle speranze nuove, da noi invece c’è stato solo il vuoto d’aria. La crisi dei partiti nascosta, occultata, devastata dal dilagare della corruzione, è esplosa fragorosamente e non ha risparmiato nessuno. La crisi è diventata discredito diffuso, i referendum hanno espresso una grande voglia di cambiare, ma è stato Berlusconi a occupare meglio quel vuoto. Anche perché con i partiti non funzionanti, si sono diffusi il culto del “leader” e la cultura della “supplenza”. La personalizzazione della politica ha animato suggestioni presidenzialiste, ovviamente senza delineare i necessari contrappesi istituzionali. Da un lato la magistratura e dall’altro i maggiorenti dell’economia nazionale si sono assunti invece compiti di moralizzazione: non che mancassero le buone ragioni per intervenire, ma non si può negare che da parte dei magistrati ci siano state invasioni di campo e che i poteri economici abbiano agito in difesa di interessi molto concreti. Ecco, nel motore di Berlusconi questa antipolitica accumulata è diventata la benzina che lo ha spinto, il propellente che aveva bisogno di una strutturale sfiducia della politica per dare energia al progetto. E si comprende bene come l’antipolitica in questo caso sia stata l’altra faccia del populismo: non sostengo certo che questa sia la sola ragione del successo berlusconiano, tuttavia è il fattore di maggiore squilibrio istituzionale. La cosiddetta transizione, in realtà, non si è mai chiusa proprio perché Berlusconi non vuole chiuderla: pensa di utilizzare a proprio vantaggio le deformazioni che l’hanno determinata e il discredito della politica e dei partiti che ne consegue».
Nel popolo del centrosinistra è ancora aperta la ferita del ’97, quando D’Alema tentò nella Bicamerale la strada delle riforme condivise con Berlusconi. Fu un errore quel tentativo oppure l’attuale squilibrio tra i poteri di oggi è proprio il frutto avvelenato del mancato compromesso di allora?
«Fu giusto scandagliare, provarci. Del resto la Bicamerale per le riforme era il primo punto del programma elettorale con cui l’Ulivo vinse le elezioni del ’96. E la ricerca di riforme condivise sta nella nostra cultura costituzionale. Probabilmente se il compromesso della Bicamerale fosse stato confermato dal Parlamento, oggi vivremmo un diverso rapporto tra istituzioni e società, tra politica e partiti: la riforma da sola non basta a ripristinare una relazione di fiducia tra i cittadini e la politica, ma se i partiti non sono neppure capaci di mettere ordine e ritrovare un equilibrio tra i poteri, allora l’impresa si fa quasi impossibile. Invece Berlusconi decise di far saltare tutto. E lo fece, non a caso, sul tema della giustizia. Dopo aver cavalcato Mani Pulite con piglio giustizialista, quando finì lui stesso al centro di inchieste con accuse piuttosto pesanti, cominciò a coltivare l’idea che all’indubbio squilibrio esistente bisognasse rispondere con un drastico recupero del primato della politica sulla giustizia. Si badi bene: la sua risposta non era un nuovo equilibrio tra governo, Parlamento e potere giudiziario, ma un diverso sbilanciamento, peraltro accentuato dalle forzature leaderistiche e dalla distorsione del concetto di sovranità attribuita in modo populistico direttamente alla funzione di governo. Sono tendenze che, negli anni 2000, hanno poi assunto curvature pericolose e che ora producono continui e intollerabili conflitti istituzionali. Ma già da allora, dal ’98 in poi, fu chiaro che Berlusconi avrebbe puntato le sue carte non sulla riforma, bensì sull’acuirsi della crisi. E da quel momento il precario equilibrio post-referendario tra istanze di democrazia diretta e regole della democrazia rappresentativa cominciò a saltare, a piegarsi verso esiti plebiscitari, a travolgere la divisione dei poteri. Se dunque fu giusto tentare nel ’97 con la Bicamerale un accordo di sistema con il leader del maggiore partito d’opposizione, ora non possiamo dimenticare quell’esito».
L’Unità 14.04.11