L´homme d´Etat entra in aula dalla porticina laterale. Ha gli occhi bui, la faccia contratta. Seminascosto, si trattiene sulla soglia quasi in apnea, prima di affrontare l´emiciclo della grande aula. Silvio Berlusconi s´acconcia la cravatta; sistema la giacca sul ventre; distende il viso raggrinzato in un sorriso stereotipato
Dicono che sia il massetere a fare quel repentino prodigio. Chiedo che cosa è il massetere. Mi rispondono che è un muscolo della faccia, corto e solido, a ridosso della mandibola. Chiedo: bene, ma che cosa c´entra il massetere con il sorrisone che il premier esibisce ora che attraversa trasversalmente l´aula da sinistra verso destra? Mi rispondono che il segreto del suo sorriso inalterabile, di pronto impiego è in quel muscolo, il massetere. Lo controlla come il dito di una mano. Lo irrigidisce a comando, dicono, sollevando appena e senza sforzo il lato destro della bocca e il gioco è fatto perché il volto e gli occhi «si dinamizzano», coinvolgendo tutto il viso. Sarà il massetere allora a mostrare del Cavaliere la finzione di una fisionomia spensierata, quasi di buonumore. Messa su quella, si può far vedere finalmente dal pubblico scarso; dai giornalisti numerosi; dalla corte degli avvocati in toga; dai pubblici ministeri con il capo chino sulle carte che hanno sul banco, per non dargli soddisfazione.
Berlusconi simula serenità, quasi una indifferente euforia. Stringe mani come se tutti gli avvocati fossero convenuti lì per salutarlo e proteggerlo; tutto il pubblico per incoraggiarlo; tutti i giornalisti per celebrarlo. Si fa incontro ai procuratori che lo accolgono freddamente. Come un primo attore che non vuole perdere il proscenio, ripiega verso i banchi, le seconde, terze, quarte file degli avvocati. Già guarda sottocchio il suo vero obiettivo, i giornalisti laggiù in fondo. Saranno loro il megafono che documenterà, come ha promesso, la volontà del presidente del Consiglio di farsi processare: «Non ho nulla da temere che le accuse contro di me sono inventate». Con un paio di passi rapidi è già davanti allo scranno che separa i cronisti dagli avvocati. Berlusconi ha pronto il consueto flusso verbale da incantatore da fiera. Sa di poter cavare il massimo del profitto da quelle operazioni vocali sulla psiche degli italiani. Domina l´arena mediatica e la stregoneria gli riesce sempre. Finora la platea l´ha bevuta. La ripete. Da sciocchi attendersi self-restraint. Ha in mano il controllo pieno di buona parte dell´informazione, è naturale che voglia adoperarla pro se e senza risparmio, soprattutto quando i tempi per lui si fanno difficili. «Invece di governare, sono qui…» dice e, con autocompianto posticcio, fa spallucce da uomo rassegnato, dimentico che imprese e sindacati, docenti e studenti, Comuni e Regioni, Nord e Sud, Europa e Africa, hanno in mano la misura dell´inettitudine della sua leadership e, chiara, la sincope del suo governo. Parla, parla, parla senza una pausa. «Sappiamo che questi sono processi mediatici. Non riesco a capire come un presidente del Consiglio si possa trovare davanti a una situazione come questa con accuse che sono infondate e demenziali. Solo invenzioni dei pubblici ministeri staccate completamente dalla realtà».
Implacabilmente, ogni frase è un luogo comune. Mai un fatto, mai un evento, mai un argomento. Soltanto ideologia. Se ne avesse – di argomenti – discuterebbe nel processo perché il processo nasce per quello: macchina retrospettiva, stabilisce se qualcosa è avvenuto e chi l´abbia causato; accusa e difesa formulano delle ipotesi; il giudice accoglie la più probabile, secondo i canoni. Quale migliore opportunità di mostrare i suoi motivi, di illustrare finalmente le ragioni insuperabili che dice di avere in tasca. Niente, non ci pensa. Lui non ci casca: i fatti gli sono sempre scomodi.
Il massetere ora sembra allentato. Il volto mostra ira, quasi un tenace furore quando la logorrea farfallina cede all´umore, alle viscere. Sembra che si afferri il vero volto del Cavaliere, sempre accortamente nascosto nella perfomance mediatica. Condanna e ghigna perché il canovaccio che gli hanno preparato (o che si è preparato) ora affronta non più il suo processo, ma chi lo ha promosso. «La magistratura oggi è come un´arma di lotta politica e per questo bisogna riformare la giustizia». Gli chiedono: riforma della giustizia o riforma del pubblico ministero, presidente? Niente. Finge di non sentire e tira innanzi con il sermone. Non ammette interlocutori né domande né intoppi al monologo. Ribadisce la lezione imparata (a memoria): «La riforma che il governo intende approvare non sarà una riforma punitiva, ma servirà per riportare la magistratura a quelle che deve essere, non quello che è oggi: ripeto, è un´arma di lotta politica e questo non funziona».
Prende fiato per un attimo. Si riesce a mettergli lì tra i piedi il «caso Ruby». Il comizio ha ingrassato il suo Io e il sentimento narcisistico d´onnipotenza si divora ogni prudenza confermando una regola: quando gli capita di affrontare la realtà e di parlare di fatti si confonde, si contraddice, reinventa senza cautela, si autoaffonda. Offre un´altra versione (l´ennesima bugia, prima o poi bisognerà dare conto dell´intero repertorio) di come andarono le cose in questura nella notte tra il 27 e il 28 maggio 2010. «Io ho chiesto un´informazione con la mia solita cortesia, preoccupato che la situazione potesse dar luogo a un incidente diplomatico. Mi hanno detto che non era egiziana ed è caduto tutto». È spudorato. Sa (e ora lo sanno tutti) che quella notte non ci fu soltanto una telefonata, ma ripetute telefonate. Voleva che liberassero la sua concubina; la disse «nipote di Murabak»; pretese che la consegnassero a una sua incaricata (Nicole Minetti). Il capo del governo lo ha ribadito alla Camera reclamando il conflitto di attribuzione per sottrarre il processo a Milano: «Ho evitato una crisi internazionale, credevo che fosse la nipote di Mubarak». Parlamentari servili gli hanno creduto e ora il malaccorto lascia tutti di princisbecco: quella notte ho saputo che non poteva essere la nipote di Mubarak perché mi dissero che era marocchina!
L´Imbroglione cucina un´altra frittata quando racconta l´aiuto offerto a Ruby. «L´ho aiutata e le ho dato perfino la chance di entrare con una sua amica in un centro estetico. Doveva fornire un laser antidepilatorio. Costava, se ricordo bene, 45 mila euro anche se Ruby dice che gli euro erano 60 mila. Così ho dato l´incarico di darle questi soldi per sottrarla a qualunque necessità, per non costringerla alla prostituzione, ma per portarla nelle direzione contraria». Berlusconi non si rende conto che le sue parole confermano quale fosse l´esclusiva fonte di reddito di Ruby, prima e dopo gli incontri di Arcore.
Lo portano via prima che faccia altri danni a se stesso e alle troppe frottole che ha distribuito negli ultimi tre mesi. Conclusa l´udienza, si rimette al lavoro. No, al processo non pensa. Pensa di nuovo ai giornalisti. Affida loro un´altra omelia. «Questa mattina ho sentito dei testi e ne vengo via con l´impressione abbastanza drammatica del tempo che si perde su delle accuse che sono frutto soltanto della fantasia di certi pubblici ministeri. Incredibili questi processi, che sono soltanto processi mediatici fatti per buttare fango sull´avversario politico, che si considera un nemico da eliminare perché è l´unico ostacolo alla sinistra per tornare al potere». Liquida l´accusa con un farfuglio che non ha né capo né coda. «L´accusa è che io sarei stato socio occulto di un´azienda che vendeva diritti a Mediaset. Questa azienda si è appurato che ha pagato al capoufficio acquisti di Mediaset 21 milioni di cresta per farseli comperare. I diritti venduti in un anno sono stati 30 milioni di dollari. L´accusa è che io sarei stato al 50% di questa azienda. Allora, io sarei stato così stupido da pagare la metà di 21 milioni al capoufficio acquisti della mia azienda a cui avrei potuto fare una telefonata dicendogli: “Entro stasera alle 6 devi firmare questo contratto di acquisto”. Ma questa è solo la prima delle cose paradossali. La seconda è che questo capoufficio acquisti era lì in una struttura che comperava diritti per mille milioni di dollari all´anno, quindi quei ventuno milioni li pigliava per trenta milioni di acquisti all´anno per diversi anni. Qual è quell´imprenditore che è così folle che può tenere per più anni a capo dell´ufficio acquisti della sua azienda un corrotto che acquista dei diritti per la sua azienda e si fa pagare una cresta a danno dell´azienda? Non c´è imprenditore al mondo che possa fare una cosa del genere. Un signore che conosco aveva saputo che un suo parente faceva la cresta dell´acquisto delle carote e lo ha licenziato».
Alzi la mano chi ci ha capito qualcosa. In ogni caso, le sue ragioni avrebbe potuto spiegarle ai giudici nel processo. Erano lì. Lui era lì. La cosa si poteva combinare con il comodo di tutti. No, il Cavaliere ostinatamente muto (e assopito) durante le udienze, diventa un incontenibile parolaio fuori del processo, a udienza chiusa. Quel che conta per lui è lo show. Il modello è la fiera. A Berlusconi bisogna dare soltanto il palco e un pubblico adorante. Se il pubblico non lo è, Berlusconi tracolla, ondeggia. Il potere dell´adulazione è incalcolabile e rende cieca anche la persona più intelligente. Abituato alla riverenza e alla corvée servile offerta dai coatti che attendono un premio, un onore, una poltrona, lo scuote anche soltanto un´interruzione. Il suo Io ipertrofico non ammette interlocutori né – naturalmente – una domanda. Porgliela rivela il suo stile (le style c´est l´homme). Le parole che butta come una fontana si fanno viscerali fino all´invettiva e al ringhio. Una domanda (lo portano via di nuovo e di peso) lo fa ancora scappare verso luoghi più protetti: in strada, davanti a un paio di centinaia figuranti. Ora tra gli applausi, può celebrare, in un delirio narcisistico, se stesso, le sue virtù, la sua vita e aizzare i campioni della libertà contro la magistratura «nemica dell´Italia».
L´ultimo atto della giornata sarebbe triste e grottesco se non facesse paura. Quest´uomo, prigioniero delle sue ossessioni, inabile a dire la verità, sempre più chiaramente vuole spingere il Paese in un conflitto fatale soltanto per salvare se stesso.
La Repubblica 12.04.11