I temi per il rilancio dell’economia da troppo tempo latitano nell’agenda politica nazionale. Soprattutto in una fase, lunga, di grande incertezza, le imprese si muovono in una condizione schizofrenica. Da un lato, le economie internazionali e i mercati emergenti viaggiano a velocità crescenti. È sufficiente rinviare alle ultime previsioni dell’Fmi per ricavare un quadro complessivo: agli affermati Bric (Brasile, Russia, India e Cina) si stanno affiancando altri Paesi del Far East asiatico (Vietnam, Cambogia) caratterizzati da performance elevate. Tant’è che la Cina sta delocalizzando in Vietnam. Dall’altro lato, il nostro Paese permane fanalino di coda in un continente europeo segnato da bassa crescita. Certo, abbiamo retto meglio di altri alla bufera internazionale, grazie anche all’azione dell’esecutivo. Ma a quell’azione di difesa sono seguiti solo pochi annunci di interventi per un attacco. Nulla di più. Le imprese sono all’interno di questa morsa: la velocità (di realizzazioni, di crescita) al di fuori dei nostri confini, l’immobilismo e l’incertezza in casa. Se a questo sommiamo una domanda interna che non cresce, l’incertezza che le vicende del Nord Africa generano, l’aumento dei costi delle materie prime, l’incremento dei costi energetici, è facile comprendere come la preoccupazione del sistema produttivo cresca ulteriormente di livello. Che ieri, con l’appello della presidente di Confindustria Marcegaglia, raggiunge una soglia di preoccupazione rilevante, raramente raggiunta in passato.
Le imprese percepiscono una sostanziale solitudine nel processo di trasformazione quotidiana che stanno realizzando a fronte dell’agguerrita concorrenza internazionale. Il peso della burocrazia è sempre il medesimo, il livello di tassazione altrettanto, la semplificazione della normativa e la (vera) riforma della giustizia che dia maggiori garanzie e velocità nell’esecuzione appartengono ancora al libro dei sogni, delle liberalizzazioni dei servizi non si vede traccia, anzi. Prevale così un sentimento di disillusione e disincanto, ma anche di rabbia. Non avvertono che vi sia, soprattutto nel ceto politico, la consapevolezza delle sfide e delle opportunità che si vanno via via nel tempo perdendo.
L’insieme del Paese sembra avvitato su se stesso. Meglio, è la politica italiana a essere entrata in una fase autoreferenziale, al limite dell’autismo. Incapace di prestare ascolto anche ai richiami delle più alte cariche dello Stato, come quelli del Presidente Napolitano. In questa situazione, le stesse associazioni di rappresentanza ne risentono negativamente. A loro volta, schiacciate fra una base di iscritti che manifestano il loro malessere e un interlocutore (la politica) che non è in grado di realizzare interventi efficaci. Di qui, l’appello all’azione e alle responsabilità individuali. Di qui, la necessità di dare un segnale forte di coesione, di individuazione di priorità per rilanciare lo sviluppo del Paese e dare risposta a un sistema produttivo che vuole essere competitivo a livello internazionale. Dopo, però, ritornerà il nodo della politica, di avere interlocutori in grado di realizzare almeno quelle pre-condizioni utili affinché le imprese possano continuare a crescere e a competere. Alla fine, cercasi politica disperatamente.
*Direttore scientifico Fondazione Nord-Est
La Stampa 11.04.11