cultura

"Pinacoteche. Bologna, turn over dell'arte: oggi niente Raffaello", di Michele Smargiassi

Oggi niente Estasi. Il cartello dice “sala chiusa”: Santa Cecilia va in deliquio senza spettatori. «Forse nel pomeriggio, dipende dai turni», avvisa con rammarico Daniele Biondino, custode laureato e specializzando in storia dell´arte. Complice il difficile mercato del lavoro intellettuale, la Pinacoteca di Bologna ha personale eccellente. Ma ne ha poco. Servono dieci custodi per turno e l´organico è all´osso. Basta un´influenza, e Raffaello diventa irraggiungibile. Se non lui, i Carracci, o Guido Reni: anche i grandi maestri fanno i turni. Ma anche quando nessuno li può vedere, esistono. E non devono assolutamente sudare. Anche l´impianto di climatizzazione, alla Pinacoteca Nazionale di Bologna, è eccellente. Monitorato a distanza dall´Enea. Venti gradi e umidità stabile, con ammortizzatore graduale per le variazioni climatiche a breve e a lungo periodo. Un impianto modello. I dipinti sono al sicuro. Il portafogli molto meno. Pagate le bollette, le manutenzioni ordinarie e altre spese correnti, i 65 mila euro di finanziamento stanziati dal Ministero per il 2011 sono già esauriti, come ogni anno, anzi a volte non sono neppure sufficienti e si pagano interessi di mora all´Enel, una vera tassa sulla penuria.
«Con pochi soldi puoi fare ancora cultura, anzi a volte le ristrettezze sono uno stimolo virtuoso, perché questo, siamo sinceri, è un settore che ha conosciuto grandi sprechi. Ma con zero soldi no, non c´è virtù che tenga». La voce del soprintendente Luigi Ficacci rimbomba nel pulito silenzio delle sale dell´antico convento gesuita di via Belle Arti. Grandi pareti in tessuto écru, arredi in legno progettati dall´architetto Leone Pancaldi negli anni Sessanta: a suo modo anche l´allestimento fa parte dell´esposizione, «volevo stampare un volumetto per spiegarlo ai visitatori, ma non ho quei tremila euro». Figuriamoci se ce ne sono per restaurare qualche opera, magari neppure dello Stato, come i quadri che languiscono a tutto rischio e pericolo in tante chiese. Sono anni che le soprintendenze hanno abbandonato la sorveglianza dell´arte diffusa. In molte città, dove non esistono musei statali, la soprintendenza è solo «uno sportello che firma autorizzazioni».
La nostra conversazione non disturba nessuno, siamo quasi soli in mezzo al barocco bolognese. L´anno scorso la biglietteria ha staccato 32.761 ingressi, che fa poco più di cento visitatori al giorno, e sono già tanti per un museo che ha offerto, in quell´anno, solo se stesso. «Un museo d´arte antica è un patrimonio del territorio, ma un bolognese difficilmente viene a visitarlo ogni mese. Se non c´è un motivo». Ecco: per non essere solo un magnifico scrigno, un museo come questo dovrebbe produrre motivi. Quando lo fa, si vede. Nel 2008 due mostre neppure tanto di cassetta, dedicate al pittore Aspertini e allo scenografo Basoli, quasi raddoppiarono i visitatori abituali: 57.789. Ma fu un anno felice e solitario. Nel 2009, già 20 mila in meno. Eppure il soprintendente, come da legge, ogni anno presenta il suo progetto culturale. Ricco di idee, proposte, iniziative. Quasi tutte destinate a non essere realizzate. «Un allenamento mentale», sorride il dottor Ficacci. Un libro dei sogni destinati al cassetto. Soldi per mostre temporanee, per la valorizzazione del patrimonio, per iniziative collaterali, inutile aspettare che ne piovano giù da Roma. Finiti gli anni d´oro, quando soprintendenti celebri come Gnudi o Emiliani potevano telefonare direttamente al ministro dei Beni culturali, e chiedere, e ottenere. Oggi anche il ministro allargherebbe le braccia. Se n´è appena dimesso uno proprio per accumulo di braccia allargate. «Ma l´affamatore non è il ministero, è il bilancio dello Stato. Forse torneranno tempi felici, ma sarà tardi: come tentare di rianimare un corpo comatoso». Ficacci è un immaginifico. Chiama i suoi musei (la sua soprintendenza ne gestisce quattro, compreso il Palazzo Diamanti di Ferrara) «ospedali dell´arte», perché ricoverano e risanano. Dottore, la prognosi? La terapia? «Ci sono diversi modi di reagire. Uno è molto italiano: spendere i soldi che non hai. Non paghi le bollette e investi in due tre belle iniziative, che fanno pubblico e rassegna stampa, ti mettono in bella luce col Ministero. Salvo poi, a fine anno, andare a Roma e dire: non ho i soldi per pagare l´Enel, ripianate voi il buco». È il modello Asl, non l´ha detto lei che questo è un ospedale? «Sì, ma non è onesto». E allora? «C´è il modo classico, da funzionario ministeriale: inoltro una bella lamentela formale per la scarsità di fondi, e poi mi ritiro tranquillo nella routine. Ma noi soprintendenti non siamo burocrati. Siamo storici dell´arte, amiamo le cose che curiamo. E allora c´inventiamo un mestiere che non c´è». Si va a bussare alle porte delle altre istituzioni, il Comune, la Regione, le fondazioni bancarie, i privati. «Vorrei essere l´amministratore delegato di un´azienda che non esiste: la cultura di un territorio».
Bello a dirsi, faticoso e frustrante a farsi. «Un Comune ha molte più risorse di me. Una fondazione bancaria, non parliamone. Ma quando si propone una partnership culturale, tutti devono mettere qualcosa. Non puoi sederti legittimamente a un tavolo senza metterci sopra nulla». Qualche bel colpo “gratis” va a segno: grazie alla mediazione del Fai, Prada restaurerà quattro gessi dell´Accademia di belle arti. Ma altre volte si crolla sul traguardo. Il progetto “Cinema dell´Ottocento”, ardito collegamento fra la pittura accademica e la nascita del cinema italiano, assieme alla Cineteca di Bologna, è naufragato quand´era già tutto pronto: «I fondi che speravamo di avere non sono arrivati». Succede spesso. All´inizio di ogni anno il Ministero diffonde una ripartizione preventiva dei fondi alle soprintendenze, che sulla base di quelle promesse vengono invitate a fare i loro progetti: ma se i soldi arrivano davvero lo si sa solo a metà anno e perfino in autunno. E sono sempre meno del previsto: meno venti, meno trenta per cento. «Così devi andare dai partner e dire: spiacenti, non ce la facciamo. Umiliante, la parola è questa, umiliante». Ma i tagli non sono uguali per tutti. Non ha un moto d´invidia quando legge, per dire, che per la Fondazione Zeffirelli lo Stato tira fuori otto milioni, pari a un secolo di finanziamento ordinario della sua Pinacoteca? «Un funzionario dello Stato non invidia e non si scandalizza mai. A volte però è colto da uno scoramento al limite del trauma».

La Repubblica 08.04.11