Il Presidente della Repubblica questa volta è andato più in là che in altre precedenti esternazioni. Ha raccomandato sempre moderazione di accenti, lealtà tra le istituzioni, condivisione di valori e di decisioni quando riguardino le regole di base della convivenza, ma giovedì scorso ha preso un´iniziativa insolita, un´iniziativa da grandi occasioni: ha convocato i rappresentanti dei gruppi parlamentari informandone per lettera il presidente del Consiglio. A tutti gli interlocutori che hanno varcato la soglia del Quirinale ha ripetuto il suo giudizio sulla situazione riassumibile in cinque parole da lui stesso pronunciate: «Così non si può andare avanti».
Le gazzarre avvenute negli ultimi giorni a Montecitorio sono state l´occasione determinante dell´intervento del Capo dello Stato, ma la motivazione di fondo è un´altra perché le gazzarre parlamentari non sono una novità e non avvengono soltanto in Italia.
La motivazione di fondo sta nella constatazione della paralisi parlamentare che dura ormai da molti mesi e rischia di durare ancora a lungo. Le opposizioni la denunciano da almeno un anno, ma ora l´ammette lo stesso presidente del Consiglio. Contrastano le motivazioni, ma entrambe le parti arrivano alla medesima conclusione.
Dunque il potere legislativo non legifera né esercita i poteri di controllo sull´operato dell´esecutivo che pure la Costituzione gli riconosce; il potere esecutivo dal canto suo usa in quantità anormale strumenti impropri: ordinanze, decreti, voti di fiducia, per abbreviare forzosamente il dibattito parlamentare.
In queste condizioni il Capo dello Stato, con la sua iniziativa di giovedì, ha suonato l´allarme; in termini calcistici si direbbe che ha diffidato i giocatori con il cartellino giallo facendo capire che se non cambieranno registro dal cartellino giallo si passerà al rosso, cioè all´espulsione dal campo di gioco. Nel caso nostro il cartellino rosso equivale al decreto di scioglimento delle Camere che la Costituzione prevede tra le attribuzioni del Presidente della Repubblica con la sola modalità di consultare i presidenti delle Camere per un parere non vincolante.
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Temo che l´allarme e la diffida non produrranno alcun risultato perché ne mancano i presupposti e non da oggi.
I presupposti mancano dal maggio del 1994, da quando cioè il proprietario di un impero mediatico, immobiliare, commerciale, finanziario, bancario, calcistico, diventò capo d´un partito, presidente del Consiglio o alternativamente capo dell´opposizione e insomma protagonista della politica italiana. Questa presenza insolita, corredata da una serie di effetti a pioggia che sono stati cento volte elencati e analizzati, hanno determinato la spaccatura in due della pubblica opinione dando luogo a due diversi schieramenti e a due diversi blocchi sociali.
La dislocazione bipolare non configura di per sé nulla di terribile, anzi costituisce la normalità dei reggimenti democratici quando avvenga in un quadro di valori condivisi, ma non è questo il bipolarismo italiano nato in era berlusconiana. Non c´è nulla di condiviso né di condivisibile tra due concezioni opposte della democrazia, della politica, dell´economia, della cultura, dell´informazione. Perfino della libertà e perfino dell´eguaglianza.
Non sono due schieramenti alternativi ma antagonisti. Non vanno d´accordo su niente. Allo stato di diritto che fu recuperato nel 1945 dopo il totalitarismo fascista, il berlusconismo oppone vocazione autoritaria fondata sulla dittatura della maggioranza e rinforzata dal monopolio dell´informazione. L´elenco delle anomalie è lungo e ogni giorno si arricchisce di nuovi capitoli. Non è quindi il caso di ripercorrerlo. Lascio invece la parola ad una fonte non sospetta, Andrea Marcenaro, autore d´una rubrica che compare ogni giorno sulla prima pagina del “Foglio”. Rubrica partigiana ma scapestrata e talvolta veridica. Nel caso nostro così racconta l´ultima comparsata di Berlusconi a Lampedusa.
«L´Amor Nostro rientrato a Roma dallo sprofondo dove aveva appena comprato una villa, ristrutturato un´isola, piantato ortensie, proposto pioppi sugli scogli, vivacizzato le facciate delle case, fondato un casinò, affittato sette navi per la “Crociera dello Sfigato”, pescato due triglie minorenni nonché perforato 18 buche dell´istituendo campo da golf; ma che cazzo – esplose – il mio processo breve? Beh! Capita, Cavaliere, quando si sceglie un ministro che confonde la Difesa con l´offesa».
Così Marcenaro descrive la trasferta lampedusana cogliendo una parte del tutto. Il tutto è molto di più.
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Dovrei ora parlare del processo breve, della responsabilità civile dei magistrati, della riforma della giustizia e del conflitto d´attribuzione che la maggioranza parlamentare intende sollevare con una votazione prevista per martedì 5 aprile, un giorno prima dell´apertura del processo che vede Berlusconi imputato per concussione e prostituzione minorile. Ma mi limiterò a quest´ultimo tema; sugli altri non c´è che ricordarne il contenuto con poche parole. Il processo breve è soltanto una prescrizione brevissima tagliata su misura per azzerare i processi che vedono Berlusconi imputato. La responsabilità civile dei magistrati è un nonsenso, viola il principio del libero convincimento del magistrato nella formulazione delle ordinanze e delle sentenze, pretendendo che quel principio sia sostituito con la prova raggiunta al di là di ogni ragionevole dubbio: sostituzione del tutto inutile visto che anche l´assenza di ogni ragionevole dubbio viene accertata attraverso il libero convincimento del magistrato. Del resto il nostro codice penale prevede già l´incolpabilità dei magistrati, procuratori e giudici, in sede penale con eventuali ripercussioni civilistiche di indennizzo, quando ricorrano gli estremi del dolo o della colpa grave. Aggiungere a queste norme già esistenti da tempo la possibilità di un´incolpazione civile per “violazione di diritti” significa semplicemente consentire a tutti coloro che perdono cause giudiziarie di aprire un percorso parallelo di controversie che produrrebbe il solo effetto di sfasciare la struttura giudiziaria già per varie ragioni insoddisfacente.
Resta il tema del conflitto di attribuzione che andrà in votazione martedì ed ha l´obiettivo di bloccare il processo “Ruby-gate”.
Il conflitto d´attribuzione si verifica quando uno dei poteri dello Stato invada la sfera riservata ad un altro potere. In quel caso la competenza di giudicare chi sia l´invasore ed impedire che l´invasione avvenga spetta alla Corte costituzionale. Ma nel caso specifico chi ha invaso chi?
Il tribunale di Milano darà inizio mercoledì 6 aprile ad un processo penale. I legali dell´imputato contestano la competenza del tribunale di Milano e chiedono che il processo sia trasferito al tribunale dei ministri. Si tratta con tutta evidenza di un conflitto di competenza, non di invasione di un potere su un altro potere. Giudicare sulla competenza territoriale o funzionale spetta unicamente alla Cassazione. Quanto alla Giunta parlamentare delle autorizzazioni a procedere, essa ha il compito di accettare o respingere le richieste eventuali del tribunale o della procura. Nel caso specifico ha respinto la richiesta di perquisizione di un ufficio della presidenza del Consiglio situato in un palazzo di Milano Due. Infatti quell´ufficio non fu perquisito. E questo è tutto.
Vedremo come risponderà la Corte costituzionale alla richiesta del Parlamento di giudicare il conflitto di attribuzione. L´evidenza suggerisce una pronuncia di irricevibilità del ricorso perché – lo ripeto – si tratta di un conflitto di competenza all´interno della giurisdizione che spetta unicamente alla Corte di Cassazione.
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Le vicende della Libia, dell´immigrazione, della lunga e sempre più agitata paralisi del Parlamento, dell´intervento ammonitorio del Capo dello Stato, hanno messo in ombra un altro tema che deve invece essere affrontato per quello che è: una sterzata estremamente grave della politica economica verso un intervento sistemico dello Stato nell´economia e nel mercato, in palese contrasto con la legislazione dell´Unione europea. Parlo del decreto promulgato giovedì scorso dal consiglio dei Ministri e voluto da Giulio Tremonti per impedire che un´impresa alimentare francese assuma il controllo della Parmalat.
Se fosse questo il solo obiettivo di Tremonti, potrebbe anche essere accettato sebbene si concili assai poco con l´auspicio più volte ripetuto di un aumento di investimenti esteri nel nostro paese. Siamo il fanale di coda nella classifica degli investimenti esteri rispetto agli altri paesi europei. Ce ne lamentiamo, se ne lamenta il governo, la Confindustria e gli operatori finanziari e imprenditoriali, ma quando finalmente qualcuno arriva dall´estero per investire i suoi capitali in iniziative italiane viene preso a calci e rimandato indietro dimenticando che oltre di essere cittadini italiani siamo anche cittadini europei. Il mercato comune non è nato per abolire frontiere e consentire il libero movimento delle merci, delle persone e dei capitali?
Ma Tremonti ricorda – ed ha ragione di farlo – che la Francia protegge la nazionalità delle imprese ritenute strategiche e quindi – sostiene il ministro – se lo fa la Francia perché non può farlo l´Italia? Difficile dargli torto. Bisognerebbe sollevare il tema nelle sedi europee e speriamo che venga fatto, per ripristinare il funzionamento del libero movimento degli investimenti contro ogni protezionismo. Comunque, su questo tema, Tremonti per ora ha ragione. Senonché…
Senonché la questione Parmalat è soltanto un pretesto o perlomeno un caso singolo dentro un quadro assai più ricco di possibilità. Infatti il testo del decreto non dice affatto che l´obiettivo è la difesa dell´italianità delle aziende nazionali. Dice un´altra cosa: autorizza la Cassa depositi e prestiti (di proprietà del Tesoro al 70 per cento) ad intervenire in caso di necessità per finanziare aziende ritenute strategiche per fatturato o per importanza del settore in cui operano o per eventuali ricadute sul sistema economico nazionale. Il caso Parmalat rientra in questo elenco ma non lo esaurisce perché il decreto va molto più in là. Praticamente resuscita l´Iri di antica memoria rendendo possibile che lo Stato prenda il controllo delle imprese che abbiano requisiti ritenuti strategici dal governo (da Tremonti) nella sua amplissima discrezionalità.
Tutto ciò avviene per decreto. Dovrà essere convertito in legge ma intanto produrrà effetti immediati sul mercato. Ma se il decreto non fosse convertito in legge? è realistico pensare che il governo, per evitare che quest´ipotesi si avveri, chieda per l´ennesima volta l´ennesima fiducia. Ma se in sede europea quella legge fosse bocciata in quanto aiuto indebito dello Stato ad un´impresa, vietato dalla legislazione comunitaria?
Ho detto prima che la Parmalat è un pretesto. Infatti il vero obiettivo di Tremonti è di far entrare lo Stato non soltanto nelle aziende che hanno necessità di finanziamento ma direttamente nel sistema bancario. In particolare nelle cosiddette banche territoriali: le banche popolari, le banche cooperative, le Casse di risparmio. Quelle più a corto di capitali, quelle alle quali la Lega guarda con occhi avidi, quelle che procurano voti, organizzano interessi e clientele. Una rete immensa di sportelli, di prestiti, di mutui. Di fatto la politicizzazione del credito.
È una delle più gravi malattie la politicizzazione del credito. Il decreto di giovedì scorso ne segna l´inizio. Che cosa ne pensano i partiti d´opposizione? Che cosa ne pensa il governatore della Banca d´Italia? Che cosa ne pensa il Quirinale?
La politicizzazione del credito è un altro modo per deformare la democrazia, forse il più insidioso insieme al monopolio dell´informazione. Chi può manipolare le notizie e il danaro è il padrone, il raìs, il Capo assoluto, circondato da una clientela enorme e solida. Inamovibile. O ci si arruola o se ne è esclusi. La clientela vota. Chi spera di entrarci se ancora non ne fa parte, vota nello stesso modo.
La chiamano democrazia ma in realtà è soltanto un grandissimo schifo.
La Repubblica 03.04.11
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Lo “tsunami umano” dentro la maggioranza, di Adriano Prosperi
Quello che noi italiani siamo costretti a vedere in questi giorni è uno spettacolo indegno, una farsa grottesca che va al di là di ogni immaginazione e farebbe ridere se gli attori non fossero drammaticamente persone in carne e ossa. E se non fossero in gioco da un lato la credibilità e l´esistenza stessa del nostro Paese e dall´altro i diritti elementari alla vita, alla libertà, alla dignità umana di migliaia di profughi che hanno avuto il torto di credere che sotto la parola Italia ci fosse un Paese reale. Ricapitoliamo per cercare di capire i passaggi di questa storia: c´era un governo – anzi no, non c´era un governo, se la parola significa ancora qualcosa nella lingua corrente: c´era, diciamo, un ministro che circa un mese fa aveva messo in allarme l´opinione pubblica parlando di un´emergenza umanitaria in arrivo dall´altra sponda del Mediterraneo e di un´Italia lasciata sola dall´Europa davanti a una prova drammatica. Dopo quell´esternazione preoccupata era lecito immaginare che un ministro così consapevole dei suoi doveri e così gravemente preoccupato da una minaccia che dalle sue parole sembrava veramente apocalittica, si dedicasse subito a predisporre ripari adeguati: mezzi navali allertati a evitare la solita tragica tonnara di vittime, strutture di prima accoglienza da predisporre, sistemi di smistamento, luoghi di alloggio e di assistenza per vecchi e malati, donne e bambini. Era anche logico pensare che, quando la realtà ha ridimensionato l´annunciato flagello biblico le misure predisposte si sarebbero rivelate sovradimensionate rispetto ai bisogni reali. Certo, il presidente del Consiglio ha parlato di tsunami: ma ci voleva una straordinaria mancanza di senso del pudore e del ridicolo per usare una parola come questa dopo tutto quello che era appena accaduto in Giappone. Ma lo tsunami reale è avvenuto all´interno della compagine di governo, e soprattutto all´interno della Lega, la vera anima di un governo che quanto a funzione del governare è da tempo morto e defunto e resta in piedi solo perché gli avvocati del premier lo telecomandano come un pupazzo meccanico. Questo governo oggi è come la zattera della Medusa: sulla zattera c´è un ministro dell´interno che dopo aver lanciato l´allarme nulla ha fatto per predisporre le istituzioni dello Stato e allestire ordinatamente le risorse di ospitalità del paese. Mentre le tessere del domino dei tirannelli mediterranei cadevano l´una dopo l´altra e la minaccia della migrazione di popoli interi appariva imminente, niente è stato fatto. Il sistema Italia, quel sistema che aveva trionfalmente costruito in quattro e quattr´otto uno scenario (di cartapesta, va detto) all´Aquila per il G8, è crollato di botto: ma non per l´urto irrefrenabile di orde barbariche paragonabili a quelle che misero in ginocchio l´Impero romano, bensì per l´arrivo di poche migliaia di persone sbarcate a Lampedusa con quattro stracci e tanta voglia di abbracciare i fratelli italiani – quei fratelli che a Lampedusa hanno fornito loro acqua e abiti e calore umano. Ma subito ha trionfato sulle buone intenzioni tutta l´impreparazione, la superficialità, l´improvvisazione del sistema. Non dimenticheremo mai lo spettacolo di quella umanità abbandonata sugli scogli, coperta da teloni di plastica, costretta a defecare tra i cespugli, ridotta all´estremo dell´esasperazione dalla mancanza di acqua, di cibo, di riparo. E quel che continuiamo a vedere sta mettendo in ridicolo il paese intero: soste interminabili di navi fuori dal porto, in attesa di localizzazioni di campi che poi si manifestano come luoghi fintamente trincerati, da cui si lascia fuggire chi vuole sperando che quella umanità unita si sciolga come neve al sole e sparisca senza residui. Ma perché avviene questo? Colpa dell´Europa? Colpa della antipatica sorella latina che ci vuol fare un dispetto? No. La realtà è molto più semplice. Qui al centro di tanti drammi reali c´è un drammatico imbarazzo politico: quello di chi è diviso tra la responsabilità formale di ministro degli Affari interni del paese Italia e gli obblighi reali dell´uomo politico di un partito che raccoglie tanti più voti quanto più riesce a far crescere la febbre dell´intolleranza e del razzismo nel paese opponendo cittadini a clandestini, padani a meridionali. Gridare al lupo serviva egregiamente ai bisogni della Lega. Risolvere umanamente e civilmente il problema di qualche migliaio di persone in fuga dall´Africa, spartire i doveri dell´ospitalità equamente fra le regioni magari chiedendo di più alle più ricche lo metterebbe in urto col suo elettorato. E così le bandiere che hanno sventolato per il centocinquantesimo anniversario del paese Italia oggi vengono ammainate nella confusione generale. Il Paese muore: di ridicolo.
La Repubblica 03.04.11