Una roba così non era mai successa. Il capo dello Stato che convoca i capigruppo al Quirinale, li mette in riga come scolaretti, gli chiede conto dei fatti e dei misfatti. D’altronde non era mai successo nemmeno il finimondo andato in scena negli ultimi due giorni. Il ministro della Difesa che manda a quel paese il presidente della Camera, quello della Giustizia che giustizia la sua tessera scagliandola contro i banchi dell’Italia dei Valori, quello degli Esteri che lascia la Libia al suo destino per votare un’inversione dell’ordine del giorno in Parlamento. Dall’altro lato della barricata, fra i generali del centrosinistra, contumelie e strepiti, toni roboanti, decibel impazziti. E intanto, nelle valli che circondano il Palazzo, folle rumoreggianti dell’opposizione, lanci di monetine, improperi contro il politico che osa esibire il suo faccione. Diciamolo: la nostra democrazia parlamentare non è mai stata così fragile. Ed è un bel guaio, nel mese in cui cadono i 150 anni della storia nazionale. Perché uno Stato unito ha bisogno di istituzioni stabili, credibili, forti di un popolo che le sostenga. Ma in Italia la fiducia nelle istituzioni vola rasoterra. Per Eurispes nel 2010 le file dei delusi si sono ingrossate di 22 punti percentuali, per Ispo il 73%dei nostri connazionali disprezza il Parlamento. Colpa dello spettacolo recitato dai partiti, colpa del clima di rissa permanente che ha trasformato le due Camere in un campo di battaglia. Le nazioni muoiono di impercettibili scortesie, diceva Giraudoux. Nel nostro caso le scortesie sono tangibili e concrete come il giornale lanciato in testa al presidente Fini. Ma non è soltanto una questione di bon ton, di buona educazione. O meglio, dovremmo cominciare a chiederci per quale ragione i nostri politici siano scesi in guerra. Una risposta c’è: perché sono logori, perché hanno perso autorevolezza, e allora sperano di recuperarla gonfiando i bicipiti. Sono logori perché il tempo ha consumato perfino il Sacro Romano Impero, e perché il loro impero dura da fin troppo tempo. Guardateli, non c’è bisogno d’elencarne i nomi: sono sempre loro, al più si scambiano poltrona. Stanno lì da quando la seconda Repubblica ha inaugurato i suoi natali, ed è proprio il mancato ricambio delle classi dirigenti la promessa tradita in questo secondo tempo delle nostre istituzioni. Da qui l’urlo continuo, come quello di un insegnante che non sa ottenere il rispetto della classe. Perché se sei autorevole parli a bassa voce; ma loro no, sono soltanto autoritari. Ma da qui, in conclusione, il protagonismo suo malgrado del capo dello Stato. D’altronde non sarà affatto un caso se l’istituzione più popolare abita sul Colle: dopotutto gli italiani, nonostante la faziosità della politica, sanno ancora esprimere un sentimento di coesione. E il presidente simboleggia per l’appunto l’unità nazionale, così c’è scritto nella nostra Carta. La domanda è: come raggiungerla? Con un ricambio dei signori di partito, con un’iniezione di forze fresche nel corpo infiacchito della Repubblica italiana. Ci penseranno (speriamo) le prossime elezioni. Quanto poi siano lontane, dipenderà dalla capacità di questo Parlamento di mantenere almeno il senso del decoro.
Il Corriere della Sera 01.04.11