Le università stanno lavorando alla predisposizione dei nuovi statuti. La legge Gelmini concede loro sei mesi (più tre di deroga) per cambiare gli assetti statutari del governo dell’ateneo e alla sua organizzazione interna. Un passaggio che potrebbe rappresentare una svolta storica per l’università italiana oppure un’occasione perduta.
La legge, infatti, cerca di ridisegnare gli assetti istituzionali interni degli atenei, mirando a risolvere quell’irresponsabilità decisionale che ha caratterizzato l’università dell’autonomia.
Sia chiaro: la legge, paradossalmente, lascia troppa autonomia alle università nel decidere cosa fare sulla governance istituzionale rispetto, almeno, alla legislazione di riforma introdotta negli altri paesi europei. Infatti, in Francia, Danimarca, Austria, Olanda, Portogallo, Svezia, Germania, Svizzera e Finlandia, la legge ha “imposto” agli atenei come organizzare il proprio governo interno. In Italia, invece, si è scelto di dettare dei principi generali che gli atenei possono interpretare con ampi margini di autonomia. Bello a dirsi, vero? Peccato che poi, nella realtà, si rischi davvero che gli autonomi atenei continuino a commettere gli stessi errori di prima, attuando quindi i principi di legge in modo da cambiare poco o niente la realtà.
Due sono le questioni rilevanti sulle quali si rischia decisioni inutile se non dannose: la questione del governo dell’ateneo e il coordinamento della didattica. Sul primo punto, nonostante la legge sia chiara (l’organo che decide le strategie è il cda, il rettore governa, il senato accademico, rappresentando la comunità universitaria tutta, propone e suggerisce), molti atenei stanno cercando di mantenere l’assetto attuale in cui, di fatto, vige una specie di bicameralismo simmetrico (spesso, però, inclinante a favore del senato, cioè delll’autoreferenzialità accademica). Se così accadesse, se cioè senati accademici continuassero a essere organi di governo e gestione quotidiana delle attività, nulla cambierà nei meccanismi istituzionali che hanno impedito agli atenei di interpretare in modo responsabile l’autonomia.
La questione del coordinamento della didattica è più complessa. Qui la legge dà una mano a creare ambiguità. Essa, infatti, attribuendo ai dipartimenti «le funzioni finalizzate allo svolgimento della ricerca scientifica, delle attività didattiche e formative, nonché delle attività rivolte all’esterno ad esse correlate ed accessorie», sembra configurare un assetto organizzativo in cui i dipartimenti (le strutture che dovrebbero occuparsi in primis della ricerca) abbiano la responsabilità totale di tutte le attività.
Il legislatore, però, rendendosi conto che messa così ci potrebbero essere seri problemi, lascia agli atenei la possibilità di istituire «strutture di raccordo» tra dipartimenti, con «funzioni di coordinamento e razionalizzazione delle attività didattiche, compresa la proposta di attivazione e soppressione dei corsi di studio, e di gestione dei servizi comuni». Insomma la legge dice: le facoltà sono abolite però, se necessario, qualcosa di simile bisogna che esista, altrimenti la didattica viene parcellizzata e risulta ingovernabile.
Merita qui ricordare che in tutte le università del mondo occidentale esistono strutture di secondo livello (denominate facoltà, scuole, colleges) che hanno la responsabilità di coordinare e governare la didattica.
Si tratta di un’esigenza funzionale che serve alle università per assicurarsi economie di scala sia nella progettazione culturale dei corsi di studio sia nella gestione delle risorse finanziarie.
Non si capisce perché la legge di riforma abbia voluto rendere queste strutture di secondo livello facoltative, soprattutto tenuto conto che essa stabilisce che i professori e i ricercatori siano incardinati, come giusto, nei dipartimenti e non più nelle facoltà (quindi eliminando il potere delle facoltà sui “posti”).
Su questa tematica, in molti atenei, si sta facendo una grande confusione. Si fa fatica a capire che le nuove “strutture di raccordo” non hanno niente a che fare con le vecchie facoltà (che erano non solo il modo di presentarsi all’esterno delle università ma anche la struttura che gestiva il personale docente), e non si capisce che le nuove strutture di raccordo dovrebbero essere degli organi interni di governo della didattica, senza i quali si rischiano due effetti perversi: la frammentazione della didattica, a danno degli studenti, e la “facoltizzazione” dei dipartimenti, a danno della ricerca.
Come si può capire, la situazione è tale da non promettere niente di buono. C’è davvero il rischio (siamo il paese del “Porcellum”) che i nuovi statuti non aiutino a risolvere i problemi della governance interna degli atenei, mantenendoli intatti se non aggravandoli.
Se così fosse, sarebbe davvero una colpa grave, e definitiva, del ceto accademico italiano.
da Europa Quotidiano 30.03.11