La battaglia sulla giustizia è un capitolo importante di una grande mutazione in corso nel nostro Paese che riguarda l´equilibrio delle forze sociali in generale e, per conseguenza, dei poteri dello Stato. Si tratta di un processo comprovabile di erosione dell´eguaglianza economica e di cittadinanza, con dati che mettono in luce l´aumento della povertà e la diseguaglianza tra i cittadini di influire sulle scelte politiche. Vista dal versante delle istituzioni, questa grande mutazione tocca l´ordine costituzionale che ci ha accompagnato in questi ultimi sessant´anni per riequilibrarlo in un senso che è più decisionista. Si tratta di una battaglia tutta da combattere e non conclusa e che impegna in forme e modi diversi chi opera nelle istituzioni. I magistrati hanno espresso come sappiamo giudizi fortemente negativi sulla proposta di riforma della giustizia, tanto che l´Associazione nazionale magistrati ha proclamato una “mobilitazione diffusa” denunciando i nodi nevralgici del testo Alfano: la separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm e le norme sulla obbligatorietà dell´azione penale. Se il perno della nostra Costituzione è l´indipendenza della magistratura, il perno di questa riforma è la restrizione dell´indipendenza. Si tratta di una differenza notevole che può avere implicazioni gravi per i diritti di noi tutti. Insieme all´autonomia del potere giudiziario, infatti, la proposta di riforma mette in discussione quel delicato meccanismo di pesi e contrappesi sul quale si regge il governo della legge e la certezza dei nostri diritti di fronte al potere costituito.
La direzione impressa dal governo dimostra di essere in forte tensione con quella liberale, ribadita tra l´altro a livello comunitario con pronunciamenti via via più espliciti nel corso degli anni. È questo il caso del protocollo di Copenhagen del 1993, con il quale il Consiglio europeo, nella prospettiva dell´allargamento ai Paesi dell´Est, fece espresso riferimento all´autonomia dell´ordinamento giudiziario come condizione dell´allargamento. Tra i parametri di Copenhagen, quelli politici comprendono sia la democrazia e il primato del diritto che i diritti dell´uomo e la tutela delle minoranze. La democrazia e il primato del diritto sono esemplificati attraverso una serie di fattori tra i quali l´organizzazione e il funzionamento del Parlamento, del potere esecutivo e del potere giudiziario. La democrazia quindi non è solo voto popolare e opinione della maggioranza ma l´intero ordinamento. Circa il potere giudiziario, questo è definito in ragione della sua indipendenza dagli altri poteri sulla base di alcuni indici: il ruolo del governo nella nomina e nella progressione in carriera dei magistrati e l´esistenza di un organo di autogoverno della magistratura. L´Europa unita ha cioè sviluppato nel corso della sua storia una vera e propria teorica dello stato democratico nel quale vige il primato del diritto, e ha infine prodotto parametri di misurazione e verifica delle condizioni che fanno di uno stato democratico uno stato più o meno coerente con i principi dello stato di diritto. Se la riforma Alfano fosse approvata, come si collocherebbe l´Italia rispetto a questi parametri comunitari?
Alla base del costituzionalismo moderno vi sono una visione pessimista della natura umana e un profondo desiderio di proteggere la libertà. Da un lato l´accettazione del fatto che proprio perché non siamo santi abbiamo bisogno di governo; dall´altro l´idea che occorra fare in modo che chi governa sia messo nell´impossibilità di agire d´arbitrio. Come limitare il potere? Affidandosi non alla virtù, ci insegna Montesquieu, la quale non riesce a moderare se stessa, ma alla logica dei pesi e contrappesi, la quale da un lato presume che chi fa le leggi (o ha il potere di imporre obbedienza) ha tutto l´interesse a farle a suo vantaggio, e dall´altro cerca la soluzione a questo rischio fuori della volontà degli attori. Come Ulisse si fece legare per resistere al canto delle Sirene poiché sapeva di non potersi fidare della sua virtù, così il legislatore volle mettere i limiti del potere fuori della volontà di chi lo esercita. Questa è la logica vincente che ci hanno lasciato in eredità i padri fondatori del costituzionalismo. Una logica che ha usato la libertà come espediente di stabilità perché ha diviso il potere in modo tale che ogni sua parte fosse equipollente e capace di resistere alle pressione dell´altra. Così i Federalisti americani: «Alla base di quella separazione e distinzione dei vari poteri che viene in un certo caso ammessa da tutti come essenziale garanzia di libertà, è la necessaria autonomia di volere di ciascun potere, cosicché i membri di ciascun settore intervengano il meno possibile nella nomina dei membri degli altri settori».
Il meccanismo dell´equilibrio dinamico dei pesi e contrappesi ha per obiettivo quello di far sì che nessun potere dello Stato sia come un Ulisse slegato. Centrale è che il potere giudiziario (dal quale dipende la nostra libertà) resti un potere separato e autonomo, che il giudizio non sia costola della volontà, che non diventi in nessuna sua parte – per esempio il pubblico ministero- un organo alle dipendenze del Governo (del ministero dell´Interni, come era nello Statuto albertino). Ma lo sbilanciamento dei poteri è la logica che muove la proposta Alfano. C´è da chiedersi quale vantaggio ricaverebbe il cittadino da una riforma il cui esito è che una parte del lavoro della giustizia operi alle dipendenze più o meno dirette del governo.
da la Repubblica