La riforma del federalismo fiscale è arrivata finalmente alle questioni di peso con l’approvazione del decreto sulla finanza regionale, dopo quello sulla finanza comunale. Colpisce quello che i due decreti mancano di affrontare. Il nodo centrale ancora aperto riguarda la perequazione: come redistribuire tra regioni ricche e regioni povere, e tra enti locali ricchi e poveri, le risorse fiscali loro attribuite mediante le imposte decentrate. Le decisioni su elementi solo apparentemente tecnici sono ancora rimandate a interventi successivi.
Con il decreto sulla finanza comunale (approvato dopo tormentate discussioni il 2 marzo scorso) e con quello sulla finanza regionale (che ha ricevuto ieri il parere favorevole della commissione bicamerale) la riforma del federalismo fiscale è arrivata finalmente alle questioni di peso. Più che impressionare per quello che dicono – qualche aggiustamento sui tributi locali, molte conferme degli assetti attuali, tutto comunque assai lontano dai rivolgimenti cosmici annunciati – colpisce quello che i due decreti mancano di affrontare. Il nodo centrale ancora aperto riguarda la perequazione, cioè come redistribuire tra regioni ricche e regioni povere (e così pure tra enti locali ricchi e poveri) le risorse fiscali loro attribuite mediante le imposte decentrate. Il risultato è che ad oggi uno degli esiti fondamentali della riforma, e cioè se, e come, cambierà la distribuzione delle risorse finanziarie tra Nord e Sud, tra regioni e comuni diversamente caratterizzati in termini strutturali e dotati in termini finanziari, rimane sostanzialmente indeterminato. È un segno, al contempo, della scelta di rimandare al futuro le decisioni costose in termini politici e del grado di improvvisazione con cui sono formulati i decreti.
IL SISTEMA PEREQUATIVO
Va ricordato che il disegno generale della riforma stabilisce per regioni/comuni un sistema di finanziamento/perequazione differenziato a seconda delle funzioni di spesa da loro svolte. Per le funzioni regionali e comunali che hanno maggiore portata sociale (per le regioni le funzioni assistite dai livelli essenziali delle prestazioni – Lep come la sanità, l’assistenza, l’istruzione) si prevede una perequazione sui fabbisogni: i trasferimenti perequativi devono consentire a ogni ente decentrato, qualsiasi siano i gettiti dei tributi locali che possono essere raccolti in quel territorio, di finanziare integralmente i fabbisogni locali in queste funzioni. Ci sono poi le altre funzioni, meno rilevanti dal punto di vista sociale (come, ad esempio, gli interventi in materia di cultura o di economia locale) per le quali deve essere applicata soltanto una perequazione delle capacità fiscali: i trasferimenti integrano i gettiti fiscali dei territori con basi imponibili più ristrette avvicinandoli alla media nazionale.
Questo disegno avrebbe dovuto trovare attuazione nei decreti attraverso la specificazione di meccanismi, assai complessi dal punto di vista tecnico, per la corretta determinazione dei trasferimenti perequativi a favore di ciascuna regione e di ciascun ente locale. E invece, quasi sempre, non si va oltre all’enunciazione di principi generali (riproponendo spesso alla lettera quanto già riportato nella legge delega) e si rimanda a interventi regolamentari successivi le decisioni su elementi apparentemente tecnici, ma assolutamente decisivi per l’effettiva attribuzione delle risorse finanziarie.
Valgano qui soltanto alcuni esempi.
COME USARE I LEP (QUANDO CI SONO)?
1) Per le funzioni a più forte contenuto sociale, e per le quali la Costituzione prevede che siano fissati dei Lep da garantire sull’intero territorio nazionale, non è ancora stato chiarito, al di là di concetti un po’ fumosi quali gli “obiettivi di servizi” e il “patto di convergenza”, quali debbano essere sul piano concreto le modalità attraverso cui ancorare ai Lep la decisione finanziaria sui fondi da dedicare a sanità, assistenza, istruzione e come la distanza tra i Lep e i servizi attualmente forniti dai singoli enti possa condizionare il riparto di tali fondi. Resta comunque il fatto che, diversamente dalla sanità, per assistenza e istruzione manca ancora un catalogo di Lep, da costruire a partire da quelli previsti nella normativa vigente.
UN APPROCCIO SBAGLIATO
2) Emerge l’inadeguatezza dell’approccio seguito nei decreti, e cioè di intervenire separatamente per diversi livelli di governo (prima i comuni, poi le regioni e le province) partendo dalla ripartizione attuale delle funzioni di spesa. Èun metodo che tiene in un settore come la sanità, che è di competenza pressoché esclusiva delle regioni, ma mostra chiaramente la corda nell’assistenza e, nel caso di una sua effettiva devoluzione, nell’istruzione che sono/saranno settori tipicamente affidati a più livelli di governo. Come si fa, allora, a definire sensatamente i Lep da riconoscere ovunque e collegare a questi i fondi per finanziare/perequare i servizi sui territori quando, ragionando come fanno i decreti, bisogna distinguere i fondi che vanno alle regioni da quelli che vanno ai comuni?
3) La regolamentazione dei trasferimenti perequativi statali a favore dei comuni, tassello fondamentale della redistribuzione territoriale, inizialmente inclusa nel decreto sul federalismo regionale è stata poi espunta per manifesta inadeguatezza nel grado di elaborazione degli articoli proposti. Se ne dovrebbe parlare in un prossimo decreto ad hoc. Si tratta di un capitolo assai complesso in cui si concentrano sia i problemi collegati all’esistenza di servizi multi-governo, secondo quanto richiamato al punto precedente, sia dal ruolo che la legge delega sul federalismo fiscale riconosce alle regioni nel coordinamento della finanza comunale, sia infine dall’esistenza negli assetti finanziari attuali di un sistema di trasferimenti che dalle regioni vanno ai comuni che si affianca a quello più consistente dei trasferimenti che dallo Stato vanno ai comuni. Suscita allora molti dubbi il fatto che mentre il meccanismo della perequazione Stato-comuni sia stato messo per ora in panchina, su quello dei trasferimenti regioni-comuni si sia proceduto nel decreto sul federalismo regionale istituendo un Fondo sperimentale regionale di riequilibrio, senza che ci sia preoccupati di coordinarlo con il pezzo ancora mancante Stato-comuni, in una visione integrata che dovrebbe guardare al complesso delle risorse a disposizione di ciascun comune per fornire i servizi ai propri cittadini.
FISCALIZZAZIONE DEI TRASFERIMENTI
4) Uno dei leitmotiv dei due decreti sul federalismo è la “fiscalizzazione” dei trasferimenti attuali che lo Stato eroga a favore rispettivamente di regioni e comuni, cioè la loro trasformazione in fonti di finanziamento tributario. Questa operazione comporta una chiara incoerenza con il fatto che i sistemi perequativi previsti dalla riforma per la componente più rilevante, quella delle funzioni tutelate dai Lep, funzionano secondo uno schema verticale, cioè mediante trasferimenti dallo Stato agli enti decentrati. Infatti la fiscalizzazione, trasformando tutti gli attuali trasferimenti statali alle regioni/comuni in tributi, sarebbe coerente con una perequazione orizzontale, in cui gli enti ricchi concedono trasferimenti agli enti poveri. In altri termini, la fiscalizzazione sta assegnando al complesso delle regioni/dei comuni un ammontare di gettiti tributari eccessivo per il funzionamento del sistema perequativo verticale. Anche in questo caso, l’incoerenza deriva dal modo di procedere della riforma, fatto di sostituzioni “uno per uno”, in cui una fonte di finanziamento ne rimpiazza un’altra, senza alcuna visione d’insieme.
LA TRANSIZIONE
5)Manca in generale un adeguato sforzo di specificazione delle regole che dovranno sovraintendere alla transizione tra l’attribuzione attuale delle risorse tra regioni e tra enti locali (spesa storica) e quella che domani rifletterà i fabbisogni standard, oltreché delle regole che dovranno guidare la “manutenzione” dei sistemi di perequazione nel tempo, dopo che la fase iniziale di transizione si sia conclusa. Un punto critico – che interessa in particolare il prossimo decreto della “pipeline del federalismo” che verrà sottoposto al parlamento – è il coordinamento necessario tra transizione alla perequazione sui fabbisogni standard per quanto riguarda la spesa corrente e riduzione dei gap infrastrutturali attraverso la perequazione infrastrutturale. La sostenibilità del meccanismo della perequazione sui fabbisogni standard si regge criticamente sul fatto che le posizioni di partenza tra le varie regioni e tra i vari enti locali in termini di dotazioni infrastrutturali pubbliche siano sufficientemente omogenee: non si possono trasferire a tutti comuni risorse standard identiche per garantire le spese di funzionamento coerenti con un certo livello, ad esempio, di asili nido, se poi in certi territori gli asili nido devono essere ancora costruiti. Un collegamento ovvio (e certo non facile da regolare), ma di cui i decreti non sembrano dimostrare consapevolezza.
da lavoce.info