Il tessile ha un peso importante nell’economia italiana, ma l’abilità dei nostri addetti non basta più. Pechino paga le penali e si prende partite già assegnate. Così le aziende nostrane restano senza materia prima. Se a preoccupare gli imprenditori tessili fino a pochi giorni fa era il caro-materie prime, ora la situazione si va complicando: il problema non è più soltanto quello di acquistare il cotone a un prezzo che in dollari è aumentato nell’arco di 12 mesi del 166%, o la lana, che è salita di 56 punti percentuali.
Il problema adesso è fermare il mercante cinese. Un mercante sempre più spregiudicato, pronto ad acquistare i quantitativi di lana anche già venduti, accollandosi l’onere della penale che il commerciante deve corrispondere al precedente cliente, con il quale aveva firmato il contratto di vendita. Se un tempo bastava una stretta di mano fra gentiluomini, con il sopravvento cinese il mercato è diventato un Far West, dove vince il più prepotente. E di lana non ce n’è quasi più, mentre il cotone si trova con il lanternino.
Il Paese asiatico, concorrente numero uno per eccellenza del manifatturiero italiano, sta facendo incetta di materie prime: se, nel caso della lana, fa pressing agli allevatori australiani rilanciando sui prezzi fino ad aggiudicarsi le forniture migliori, al contempo trattiene per sé il cashmere, mettendo a dura prova il made in Italy. Che fatica da una parte a trovare qualcuno che abbia ancora materia prima da vendere, e dall’altra a sostenere i prezzi accessibili alle agguerritissime aziende asiatiche.
«È vero che i cinesi stanno acquistando in modo massiccio – conferma Piercarlo Zedda, presidente dell’Associazione nazionale del commercio laniero -. La lana, normalmente quella australiana, neozelandese e sudafricana, viene venduta all’asta e loro, direttamente o tramite commercianti locali, intervengono. Chi può pagare il prezzo più alto se la aggiudica. In questo momento i cinesi hanno molte aziende da far girare, buoni ordinativi in portafoglio con un grosso mercato interno in crescita; questo spiega il motivo di ciò che sta accadendo. Tutto si ribalta sulle nostre aziende, quelle che sono nella fascia medio bassa e hanno più difficoltà a competere a queste condizioni che diventano così proibitive».
La questione ha anche un altro aspetto importante da tener presente. «Il problema vero – continua Zedda è che la lana ha avuto prezzi troppo bassi negli ultimi anni, al punto che gli allevatori avevano grossi problemi di sopravvivenza e quindi hanno convertito, dove possibile, in agricoltura. Basti pensare che i livelli attuali di produzione di lana australiana sono simili a quelli degli Anni 20». Non sempre, insomma, correre dietro a produzioni che sembrano più redditive si rivela lungimirante.
Ma la riflessione non si ferma qui. «Non c’è un solo colpevole, se proprio di colpa si deve parlare – aggiunge Michele Tronconi, presidente di Sistema moda Italia -. La lana che veniva normalmente comprata dalle aziende asiatiche era di qualità inferiore a quella acquistata dall’industria italiana. Ora le cose sono cambiate anche in funzione del fatto che i cinesi tendono a esportare il prodotto finito in modo da far crescere il loro manifatturiero, a partire dalle pettinature fino alle tessiture». E non ci sono soltanto i cinesi desiderosi di guadagni, naturalmente. «Il Pakistan e l’India – continua Tronconi – sul cotone hanno messo dazi e bloccato i contratti. Questo percorso si è iniziato da qualche anno ma c’è un dato per tutti che può rendere l’idea: se nel 2000 la produzione mondiale di fibre si attestava a 53 milioni di tonnellate nel 2009 siamo arrivati a 71 milioni (di questi 1,1 milioni di tonnellate sono di lana, 25 milioni il cotone). Se si valuta che la popolazione mondiale è di 6 miliardi, il consumo medio è salito da 8 a 10,4 chili a testa». E non basta: all’effetto caro-prezzi e al «saccheggio» cinese s’aggiunge il fattore liquidità. «Alla crisi finanziaria gli imprenditori, e non solo loro, hanno reagito andando a cercare rendimenti alternativi. E questo ha portato a una speculazione anche sulle materie prime. Nessuno si aspettava aumenti così forti. Il problema c’è ed è serissimo perché questo porta a un maggior onere di approvvigionamento la cui conseguenza diretta è una maggior necessità di capitale circolante. Il finanziamento dei magazzini si ribalta su un maggior costo di produzione, e se contemporaneamente, a questo s’aggiunge una nuova fase recessiva (la guerra in Libia e il Giappone, che è la seconda potenza industriale, non aiutano), si avranno maggiori costi e minor ricavo».
Conclusione: «Ovviamente ciò che bisogna fare, e non si sta facendo in Italia come in Europa, è pretendere reciprocità negli scambi. Manca una politica corretta, noi che abbiamo ancora delle eccellenze veniamo sacrificati sull’altare liberistico che ha portato alla crisi del 2008».
La Stampa 25.03.11