Caro direttore,
la riforma dell’università prevede che i Dipartimenti, luogo della ricerca, siano anche il luogo della didattica; e che i corsi di laurea facciano capo ai Dipartimenti e non alle Facoltà. Ma queste ultime, magari chiamandole Scuole, potranno (in certi casi dovranno) continuare ad esserci per coordinare la didattica. In alcuni atenei (a Roma in primis, a quanto pare), di fatto i cardini della macchina universitaria continueranno ad essere le Facoltà. Per gattopardismo? Forse. Ma soprattutto perché i corsi di laurea, così come sono previsti dal Ministero, sono stati costruiti (per caratteristiche e per requisiti) con riferimento alle Facoltà.
In altre sedi, invece, si vuole cambiare. Le prime vittime del cambiamento rischiano di essere le Facoltà di Lingue. Ci sono voluti decenni perché l’accademia italiana accettasse l’idea che l’insegnamento delle lingue e letterature straniere è cosa di grande importanza. Gli studenti (e le loro famiglie), avendo un punto di riferimento chiaro e dichiarato, cioè le Facoltà di Lingue, hanno risposto in modo massiccio e convinto. Perché veniva proposto un tipo di studio che interessava e che dava qualche prospettiva in più: i laureati in Lingue (come dicono le statistiche ufficiali e le stesse ditte di collocamento) sono quelli che più rapidamente trovano un posto di lavoro. E quindi, data la loro utilità, dove si può, da Genova a Lecce, si cerca di abolirle. Si cerca di annegarne la specificità in grandi strutture (Scuole di studi umanistici, o simili, cioè le attuali Facoltà di Lettere), dove gli insegnamenti e i docenti «stranieristi» conteranno poco o nulla – mentre gli studenti serviranno a far numero.
Ma con la riforma non sono forse i Dipartimenti il luogo della didattica? Infatti è da lì che parte la manovra. In diversi atenei ci si accinge a fare sparire i Dipartimenti specificamente linguistici, accorpandoli con altri. Prendiamo il caso di Torino, dove i docenti di lingue e letterature straniere sono presenti soprattutto in un Dipartimento. È ovvio che esso debba diventare il luogo della didattica «stranieristica», mentre una Scuola dovrebbe poi provvedere, come dice la legge, al coordinamento con gli altri Dipartimenti interessati. Invece, in nome del cambiamento, cioè del ritorno a 20 anni fa, c’è chi sostiene che quel grosso Dipartimento deve sparire, per dar vita, insieme ad altri, a un megadipartimento – che altro non sarebbe che la Facoltà di Lettere. Oppure, poiché la proposta sembra non avere successo, si cerca di convincere vari docenti ad «emigrare» altrove, per impoverirne la consistenza. Ma nel caso torinese, come in altri, quel che colpisce è il tentativo di usare la riforma per cancellare la più evidente scelta di modernità effettuata dall’Università italiana. Altro che gattopardismo. Qui si vuole cambiare tutto non perché tutto resti com’è, ma perché tutto torni ad essere com’era nel secolo scorso.
*Preside alla facoltà di Lingue dell’Università di Torino
La Stampa 23.02.11