Non c´è, per gli umani, esperienza più soggettiva e incomunicabile della morte: ma insieme anche più condivisa. Questo doppio statuto – il massimo dell´impenetrabilità per il massimo della diffusione – contribuisce ad avvolgerla in un paradosso d´ombra che sempre si rinnova, e da cui non si esce. Ma non è solo un grumo pietrificato nell´immobilità, la morte. Per attenuare l´impatto emotivo della sua presenza, la fantasia mitico religiosa di molte civiltà ha spesso cercato di distendervi sopra immagini meno dure, che racchiudessero almeno un punto di luce. Fra le più comuni, quelle del viaggio, della partenza: con acque da attraversare e nocchieri da ricompensare, fino alle parole struggenti del Vangelo di Luca – «Ora lascia che il tuo servo vada, Signore… Nunc dimittis servum tuum, Domine», o al congedo misterioso e incantato di Socrate dai suoi giudici, nell´apologia platonica.
È anche storia, dunque, la morte. Storia delle emozioni che induce; storia delle pratiche – tecniche e sociali – che l´accompagnano e ne definiscono la condizione. Ebbene, è proprio questo punto capitale – della storicità del morire – quello che lo sgangherato disegno di legge sul cosiddetto testamento biologico più colpevolmente ignora, con conseguenze culturalmente e normativamente disastrose. I nodi che vengono al pettine sono due, ed entrambi decisivi: quello della pretesa “naturalità” della morte, e quello della “indisponibilità” assoluta della vita: la loro combinazione determina la cornice ideologica che fa da supporto all´intero testo. Ma è un quadro sbagliato, prima che inaccettabile.
L´idea che domina i nostri legislatori è ancora quella secondo cui «una persona non debba morire prima che la sua vita sia giunta al suo termine naturale». Ma basta riflettere con un po´ d´attenzione non prevenuta per rendersi conto che la “naturalità” di questo confine già non esiste più. La medicalizzazione della morte – un fenomeno imponente degli ultimi decenni – lo ha letteralmente divorato. In realtà, è l´intera base biologica delle nostre esistenze a essere ormai – sin dalla nascita – completamente attraversata dall´artificialità della tecnica: che aiuta, sostiene, corregge, modifica, protegge. E questo intervento integratore e manipolatore si moltiplica nella fase terminale della vita – quando essa non si consumi in un lampo – che risulta pervasivamente scandita in ogni sua vicenda unicamente dall´efficacia delle tecniche in campo. La “naturalità” è completamente perduta: sopravvive solo come ideologia consolatoria e deresponsabilizzante. Al suo posto c´è – e ancor più ci sarà nell´immediato futuro – un intreccio inestricabile fra naturale e artificiale, fra “techne” e “bios”, nel quale non è che la scelta della ragione, senza alcun canone esterno a lei, a poter individuare una soglia, un limite (provvisorio) da non oltrepassare.
E dunque, non c´è alcuna “natura” da ascoltare, che possa farci da guida – e per fortuna, va aggiunto: perché “secondo natura” quasi tutti noi non ci saremmo da un pezzo. La verità è che la tecnica ci permette, e sempre di più ci permetterà in futuro, di prolungare – anche in modo indefinito – stati di fine vita accompagnati o meno da forme di coscienza. Raggiunto questo punto, siamo già comunque oltre ogni “naturalità” dell´umano. E sarà solo una decisione interamente umana – che non avrà nulla a che fare con il rispetto di una “natura” che in quel momento non esiste più – a poter stabilire se e quanto far durare una simile condizione, tutta sotto il dominio dell´artificiale. Il resto, son soltanto sofismi (e ne abbiamo sentito di degni della migliore tradizione, come quando si vorrebbe distinguere fra alimentazione forzata e terapia farmacologica).
Ma allora chi è che decide, e come? (ed è il secondo punto di cui dicevo). È evidente che intorno a questo nodo si combatte una battaglia di potere di importanza primaria; la Chiesa si è impadronita da millenni dei due punti chiave del nostro percorso di vita: l´ingresso e l´uscita – come nasciamo e come moriamo – e non vuole abbandonarli, cercando ora in qualche modo di tenere insieme medicalizzazione e teologizzazione della morte. Il suo cavallo di battaglia è adesso costituito dall´idea della sacralità della vita – della sua totale “indisponibilità” da parte di chiunque – che mai finora era stata enunciata con tanta determinazione, tenuto conto che in passato le gerarchie cattoliche non avevano esitato a far comminare la morte (dal proprio “braccio secolare”) in caso di gravi devianze religiose, avevano teorizzato la guerra “giusta”, e avevano ammesso la condanna capitale nell´ordinamento giuridico che reggeva la sovranità temporale del papato, fino al 1870.
Non ho difficoltà ad ammettere che trovo la novità di questo principio – la sua carica “rivoluzionaria” rispetto all´insieme della nostra storia – un passo avanti decisivo nella strada dell´incivilimento umano. Ma di quale “vita” qui si parla? Di un puro guscio biologico affidato alle macchine, ormai privo di qualunque funzione riconducibile al pensiero? O anche di stati di coscienza artificialmente prolungati al costo di sofferenze giudicate insopportabili da chi le patisce? Nelle condizioni attuali delle tecnologie mediche, non c´è altra strada che stabilire ancora una volta limiti e confini, dettati solo dalla ragione dal buon senso, oltre i quali il principio dell´”indisponibilità” della vita, estremizzato per motivi solo ideologici, si rovescerebbe tragicamente nel suo contrario – nella condanna al prolungamento di uno stato intermedio fra la vita e la morte che, esso sì, non avrebbe più nulla di umano – se non fosse temperato da un´altra regola, che chiamerei di “autodeterminazione ai margini”, affidata alla volontà del soggetto in gioco. Altrimenti, molto meglio nessuna legge che un pasticcio che sa solo di potere e di muffa.
La Repubblica 22.03.11