Venerdì scorso le commissioni esteri e difesa dei due rami del parlamento, a larghissima maggioranza, hanno autorizzato il governo – rappresentato da Frattini e La Russa – ad aderire alla risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza ed a prendere le decisioni operative conseguenti.
A questo scopo concediamo basi aeree, mobilitiamo mezzi navali, allertiamo gli aerei: in altre parole anche noi siamo “scesi in guerra” con Gheddafi. Il governo è unanime? Non sia mai: Berlusconi fa dichiarazioni che suonano come una presa di distanza dai due ministri; Bossi e Calderoli sono contrari, Maroni spera che il blocco navale serva a respingere i profughi più che a rafforzare l’embargo di armi. Ci aspettiamo che, quanto prima, traducano il dissenso in dimissioni. Lo richiede la coerenza, lo impone la ragion di stato: quale credibilità internazionale ha un governo che prende impegni non condivisi da uno dei due partner della coalizione politica che lo sorregge? Eppure l’Italia potrebbe ricavarsi un ruolo strategico nella coalizione, il cui compito primario è la protezione dei civili libici. Sei milioni e mezzo sono le persone che vivono in Libia, ma una parte di questi sono più vulnerabili degli altri. Chi si è sollevato contro Gheddafi, prima di tutti. Ma anche quel quarto (o più) della popolazione libica di altra nazionalità, costituito in parte da immigrati regolari (oltre 600.000, soprattutto egiziani e tunisini) e per due terzi (chi dice un milione, chi di più) da irregolari cittadini di altri paesi della regione sahariana e subsahariana, la cui vulnerabilità giuridica e sociale, già evidente in tempo di pace, è destinata ad accrescersi in tempo di guerra civile.
Immigrati arrivati da Nigeria, Ghana, Chad, Mali, Somalia, Congo, Sudan, impiegati in gran parte nel settore informale, oggetti di arbitrarie espulsioni, di arbitri, di violenze a sfondo razziale.
Da questo universo a “rischio”, molti tenteranno di rientrare in patria, altri si avventureranno in una traversata via mare in cerca di un approdo europeo.
L’Italia ha un interesse strategico nell’assicurarsi una posizione di rilievo tra i paesi della coalizione e potrebbe farlo in ambito umanitario. Si pensi alla situazione paradossale degli eventuali profughi in cerca di asilo e protezione. Questi possono avanzare domanda di asilo solo se arrivano fisicamente nel paese di destinazione (supponiamo l’Italia): ma per farlo debbono avere passaporto e visto. Altrimenti possono arrivarci solo irregolarmente, via mare, sempre che non vengano intercettati e rimandati al punto di partenza, cioè sulle spiagge libiche, cioè dal paese dal quale fuggono. E questo è il primo paradosso.
Ma ne esiste un secondo: i paesi europei sono vincolati dalle regole di “Dublino II” secondo le quali l’esame di una richiesta di asilo compete al primo paese comunitario nel quale la persona fa ingresso.
Vengono così penalizzati i paesi geograficamente più “esposti” (l’Italia per gli arrivi da Libia e Tunisia, la Grecia per gli arrivi dal Mediterraneo orientale, la Spagna per quelli dal Mediterraneo occidentale); ma viene penalizzato anche il richiedente asilo.
Il cittadino maliano che approda in Italia ma vorrebbe andare in Francia perché lì ha parenti ed amici e potenziale lavoro, avrà la sua domanda d’asilo esaminata in Italia e qui dovrà restare se la domanda viene accolta. È il secondo paradosso.
Ed ecco una proposta. L’Italia ponga a disposizione della coalizione mezzi, risorse e competenze e richieda preminenza nella gestione delle operazioni di protezione per le popolazioni migranti.
Proponga, con l’accordo della Unhcr, della Ue, dei paesi della coalizione, delle eventuali autorità provvisorie libiche, di Tunisia ed Egitto, la costituzione di presidii (in zone protette del territorio libico, nei paesi confinanti) dove le domande di asilo possano essere presentate ed esaminate, i profughi protetti ed eventualmente destinati ai paesi di accoglienza. Si propongano regole di condivisione dell’onere, assumendone tuttavia una quota rilevante (gran parte dei richiedenti avrebbero potuto intraprendere una traversata verso l’Italia).
Una proposta consimile, consigliata e giustificata dall’emergenza, potrebbe poi tradursi nel pilastro di un nuovo assetto delle politiche migratorie nel mediterraneo. Ma ci sono altri vantaggi. Il primo è umanitario: dal 2002 a oggi, 4000 migranti sono morti nelle traversate del canale di Sicilia: la necessità di intraprendere rischiose traversate si ridurrebbe ed altre stragi sarebbero evitate. Il secondo è politico internazionale: ci distingueremmo ad occhi africani per un’azione umanitaria di alto profilo e non solo per gli attacchi bellici. Il terzo è politico europeo: metteremmo basi concrete per la revisione del “Dublino II”, invocata da anni presso partner europei duri d’orecchio, ma anche resi scettici da un atteggiamento italiano che chiede – nelle questioni migratorie – “più Europa” quando fa comodo, e “meno Europa” quando le regole che esprime ci mettono in imbarazzo.
da Europa Quotidiano 22.03.11