Siamo in guerra: come vincerla? La prima domanda che ogni governo responsabile dovrebbe porsi, quando decide di partecipare a un conflitto, è la domanda che il nostro governo non si pone.
Non è un paradosso. È l´effetto dell´incrocio di tre fattori. Primo: la nostra storica refrattarietà al pensare strategico, surrogata con l´affidamento allo Stellone. Secondo: l´ignoranza del campo di battaglia, sia in quanto alle effettive capacità del nemico (Gheddafi), sia soprattutto relativamente a caratteri e forza dei nostri alleati sul terreno (i ribelli della Cirenaica), ossia di coloro che dovrebbero svolgere i compiti della fanteria che né noi né gli americani e nemmeno i franco-inglesi intendono schierare. Terzo: perché temiamo che comunque vada perderemo. Tre ottime ragioni per non rovinarci l´umore con fastidiosi rovelli.
A questo si aggiunga la necessità di non ammettere a noi stessi ciò che stiamo facendo. “Guerra” è vocabolo espunto dal nostro gergo istituzionale. Perché la costituzione ci impedirebbe – secondo l´interpretazione corrente – di chiamare la guerra per nome. Risultato: non abbiamo mai partecipato a tanti conflitti da quando ne abbiamo certificato l´abolizione su carta.
Sicché quando i nostri piloti bombardano con successo postazioni nemiche, invece che congratularci con loro ne arrossiamo e curiamo di non farlo sapere. Durante la guerra del Kosovo, i nostri aviatori che martellavano in incognito i serbi rischiando la pelle in nome della “difesa integrata” decisero di cucirsi sulle tute delle sagome di fantasmi, perché tali si sentivano. Sentimenti probabilmente condivisi dai colleghi chiamati a fare altrettanto in Libia, sotto specie di “operazione umanitaria”.
A differenza del Kosovo e delle altre guerre cui abbiamo contribuito, sempre con un piede dentro e uno fuori, stavolta non possiamo affidarci con serenità allo Stellone. Ossia ai nostri potenti alleati. In caso di crisi, tendiamo istintivamente a stringerci al capo della coalizione. Noi non sappiamo come vincere, ma lui sì. E si ricorderà di noi nel momento della vittoria. Ragionamento di elegante semplicità. Stavolta non pare così semplice, né tanto elegante da muovere ad ammirazione i partner. Perché loro stessi hanno difficoltà a raccontarsi come vincere. E perché il leader di questa operazione non è l´America superpotente della guerra fredda o degli anni Novanta, ma la Francia. Meglio: il suo presidente.
Al netto della retorica, questa è la guerra di Nicolas Sarkozy. Il quale l´ha fortemente voluta, contro una parte stessa del suo governo, perché convinto che sarà breve, trionfale e gli garantirà la rielezione all´Eliseo. Noi speriamo con tutto il cuore che abbia ragione. Perché per l´Italia significherebbe il minore dei mali. (E forse – ma ne siamo meno certi – anche per i libici, sui quali stiamo sperimentando l´efficacia delle nostre molto selettive teorie umanitarie.) Non siamo difatti in condizione di sostenere un conflitto prolungato, costoso e sanguinoso. Al termine del quale probabilmente dovremo accollarci una fetta di quel protettorato informale cui verrebbe affidato il compito di gestire il vuoto lasciato dal regime di Gheddafi, dall´assenza di uno Stato libico e dall´inconsistenza delle milizie cirenaiche, tribali e non tribali. La cui causa Sarkozy ha sposato totalmente, pur non conoscendone né volendo conoscerne il grado di adesione ai valori della Rivoluzione francese.
La guerra breve e la caduta di Gheddafi ci permetterebbero di condividere, dal nostro strapuntino, un sia pur transitorio e ingannevole sentimento di successo. Potremmo rivendicare di aver contribuito alla caduta di un odioso dittatore. Cercando di rimuovere l´umiliante immagine del capo del nostro governo chino al bacio del suo anello. E ci illuderemo per un attimo che gli alleati vorranno premiare la nostra relativa fedeltà, ad esempio proteggendo il primato dell´Eni nella nostra ex colonia e contribuendo al contenimento dei flussi migratori via Canale di Sicilia. Salvo poi accorgerci che così non sarà.
Nulla di nuovo sul fronte italiano, dunque. Il mistero è semmai perché Obama stia facendo l´italiano, sia pure in salsa americana. Impegnandosi solo di tre quarti in una partita in cui rischia di giocarsi la faccia tutta intera. Il presidente americano ha a lungo esitato, come suo costume, salvo infine accodarsi all´iniziativa di Sarkozy e del suo “brillante secondo” – ormai terzo – britannico. Ciò dopo che i suoi ministri e generali avevano spiegato urbi et orbi che la no-fly-zone significava guerra e che la Libia non valeva le ossa di un marine americano. E tuttavia Obama ha deciso di partecipare all´attacco, battezzandolo “operazione militare limitata”. Ed esitando a riconoscere il governo di Bengasi, forse anche perché memore che da quella città e da Derna è affluita buona parte dei jihadisti arabi infiltrati via Siria in Iraq per combattervi le truppe americane.
A decidere Obama ha molto contribuito la copertura inizialmente offerta dalla Lega Araba. Utile a spuntare l´arma della propaganda gheddafiana, volta ad eccitare gli animi arabi e islamici contro i “colonialisti”, anzi i “crociati” occidentali. Ora il velo arabo sta cadendo. Gli autocrati che avevano legittimato la guerra per la libertà proclamata da Parigi siedono su troni troppo fragili per inneggiare a una guerra di fatto semi-occidentale, in quanto concepita dalla Francia e supportata da Usa, Gran Bretagna, Italia, Canada ed europei sparsi. Se lo Stellone non ci salverà – magari sotto specie di pilotata conversione di alcune tribù rimaste fedeli al dittatore – dovremo prepararci a un conflitto molto impegnativo. Alla peggio, assisteremo all´invasione franco-anglo-americana della Libia per terminare una partita che dall´aria non si può chiudere. Singolare nemesi, a cento anni esatti da quando i vapori della Regia Marina sbarcarono il corpo d´armata del generale Caneva a Tripoli “bel suol d´amore”.
La Repubblica 21.03.11