Sono un uomo dei sentimenti che in questo periodo assiste alle immagini della guerra in Libia. La vedo dal salotto, davanti a un teleschermo ad alta definizione. Una visione che riporta anche le emozioni e i sentimenti, poiché traspaiono dal volto delle persone, sono esplicitati dalle parole, dai discorsi e anche dai silenzi. Qualche settimana fa la guerra era in Egitto, ma poi è stata declassata appena si è riaccesa quella in Tunisia e poi è entrata nel buio della notte con la Libia. La televisione non passa più di una guerra alla volta. Come per gli omicidi efferati, uno solo per qualche mese, il più intrigante. Del resto, lo so, sono almeno quaranta i conflitti nel mondo e molti non fanno spettacolo, oppure sono troppo lontani per permettere di produrre servizi in diretta con la gente che manifesta rabbia o fa segni di vittoria mostrando l’indice e il medio delle mani a V. La Prima e la Seconda guerra mondiale non potevano diventare televisive e per questo erano più misteriose, non tanto nelle loro cause politiche — dinamiche ordinarie del potere —, ma perché ne giungeva solamente qualche fotografia ed era più facile e più semplice mostrare ancora vivo qualche soldato che aveva perso gambe e speranza. Guerre oggi diverse, combattute con strumenti sofisticati, aerei senza pilota, strategie regolate dai computer, dai computer in guerra. Io credo che non siano cambiati il loro volto, la violenza, la stupidità, ma che invece sia mutato l’uomo. Si potrebbe dire l’antropologia, l’umanesimo. È come se l’uomo del tempo presente considerasse la guerra un fenomeno banale, scontato, atteso persino per consumare le armi accumulate negli arsenali e riempirli di armi più intelligenti — cosi si chiamano. Sono spaventato da come si parla della guerra, in maniera disanimata. Da come si accenna alle imbarcazioni piene di gente che scappa dalla guerra, ridotte a numero e alla capienza dei centri di accoglienza. Sono impaurito dalla freddezza con cui si cancella la parola «rifugiato politico» , come indicasse il modo per rubare un posto in paradiso, a Lampedusa, sulla nostra convinzione che l’Italia sia l’Eden e non un inferno anche senza guerra. Sono incredulo di fronte alle riunioni dei capi di Stato che discutono delle guerre, ovunque siano, con lo stile di un convivio filosofico o peggio di un corso di aggiornamento in scienze diplomatiche. Come se non ci fosse il dolore dei bambini, delle donne, dei soldati, di chi pensa di poter liberare un Paese dalla dittatura, da un capo che tiene nella povertà la gente e si arricchisce investendo nei paradisi fiscali i proventi del petrolio, per sé e la propria famiglia. Come se fare la guerra con i sassi mentre gli aerei lanciano bombe fosse un divertimento. Sembra di trovarsi su Internet, sintonizzati sui videogiochi, su quelli in cui si può diventare un soldato e persino un eroe senza spargere una goccia di sangue. Una guerra di celluloide, un guerra che non c’è, ma più «interessante» . I sentimenti: il dolore per chi soffre, la pena per i bambini e per i vecchi, la perdita di una casa, che anche se vuota era il luogo della propria dimensione sociale. E non importa se è al confine con le zone desertiche. Anche nel deserto devono vivere i sentimenti. Io non li vedo più, tutto è morto. Di fronte al dolore dell’altro si dovrebbe correre e dare un poco di sollievo, di fronte a un bambino insanguinato si deve sentire una stretta al cuore e avvertire le lacrime scendere. La guerra è diventata banale, come la violenza in famiglia, come gli stupri che ormai non fanno più cronaca, e allora si sta a guardare dieci minuti di guerra e poi si cambia canale, si va magari sull’Isola dei famosi. Sono un uomo dei sentimenti ma so che sono morti, sono stati ammazzati. Rimane forse solo la rabbia, quella che esprime bene il potere quando è contrastato. Credevo che la guerra «fredda» fosse quella iniziata negli anni Cinquanta del Novecento, ora c’è la guerra «gelida» , totalmente disanimata. E senza sentimento tutto è banale, e acquista solo un prezzo e le compravendite, pur se di mercenari e di poveretti, non riescono a stimolare più l’umano, ammesso che ve ne sia ancora qualche residuo in quest’uomo. Viene in mente l’interrogativo di Primo Levi: «Se questo è un uomo» .
Il Corriere della Sera 20.03.11