Le prossime ore potranno segnare l’inizio di un’azione militare dalle imprevedibili conseguenze ed evoluzioni nel Mediterraneo, a poche centinaia di chilometri dall’Italia. Dopo tanto esitare il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha votato a favore della no-fly zone sulla Libia per impedire agli aerei di Gheddafi di bombardare i civili. Resta il rammarico per una decisione giusta, ma tardiva, che avviene quando il dittatore ha rafforzato le sue postazioni riducendo gli insorti ai minimi termini. Per questa ragione, rendere effettiva la risoluzione dell’Onu si rivelerà più complicato e rischioso di quanto sarebbe potuto avvenire se essa fosse stata presa all’indomani dello scoppio della rivoluzione del 17 febbraio, nei giorni in cui Gheddafi era sulla difensiva.
È sempre gravoso adottare simili provvedimenti, ma le coscienze democratiche, come ha ricordato il presidente della Repubblica Napolitano, non potevano continuare a rimanere indifferenti «rispetto alla sistematica repressione di fondamentali libertà e diritti» avvenuta in Libia. Non è possibile pensare che le incertezze che hanno accompagnato la decisione dell’Onu scompaiano all’improvviso così come gli interessi che le hanno motivate ma, sul piano politico, è fondamentale il sostegno della Lega Araba e, su quello militare, sarà necessario il coordinamento della Nato.
Il risultato è il prodotto della pressione congiunta di diverse tendenze. Da un lato, la prudenza della leadership americana, che vive la difficoltà di dover aprire un nuovo fronte dopo quello afghano e iracheno. Fra l’interventismo unilaterale dell’amministrazione Bush e l’attendismo multilaterale di Obama era necessario trovare un punto medio di sensibilità e di azione che speriamo non sia stato individuato quando ormai è troppo tardi. Dall’altro, il protagonismo francese, motivato da una propensione libertaria propria della cultura transalpina, ma anche mosso da un antico riflesso coloniale a tutela dei propri interessi nella zona e pronto ad approfittare della situazione per riconquistare posizioni perdute nella seconda metà del 900 su quel fronte a vantaggio dell’Italia. Infine, la mediazione inglese, che dopo l’indigestione di protagonismo internazionale dell’era Blair, è apparsa più cauta ma sempre sintonizzata con l’alleato statunitense. La Germania rifiuta ogni coinvolgimento, l’Italia, nel rispetto della Costituzione, farebbe bene a sostenere l’azione e a impegnarsi a garantire i limiti e i compromessi da cui è scaturita: l’obiettivo è quello di ottenere il cessate il fuoco, d’interrompere la carneficina, di obbligare Gheddafi al negoziato.
In questo mese sono stati commessi due errori. In primo luogo, ha pesato la scarsa conoscenza della Libia: chi ha vagheggiato un effetto domino democratico che potesse estendersi dalla Tunisia all’Egitto ha confuso la realtà con i desideri. Il paese è vasto, ricco di petrolio e scarsamente popolato, e i suoi abitanti non versano nell’indigenza come altrove. La Libia ha una struttura tribale in cui non è possibile individuare un ruolo autonomo dell’esercito come in Egitto o quello di un’opposizione politica costituita come in Tunisia. L’unica opposizione che prescinde dalla lotta clanica è quella islamica che si è infiltrata da tempo in Cirenaica: con questa delicata realtà bisognerà confrontarsi.
In secondo luogo, si continua a sottovalutare un aspetto decisivo sul quale si gioca gran parte della credibilità del mondo occidentale. La democratizzazione del mondo arabo è una richiesta giusta, ma obbliga, volenti o nolenti, a fare i conti con l’Islam politico e va sostenuta non solo a parole, ma anche con i fatti. Il limite della nostra azione è nella contraddizione che c’è fra la lotta all’islamismo (erroneamente derubricato, senza distinzioni di sorta, sotto la specie del terrorismo e dell’ideologia dello scontro fra civiltà) e la richiesta di una democratizzazione del mondo arabo. Ma noi esitiamo, impauriti dallo “spettro khomeinista”, e non scommettiamo su di loro perché temiamo il prevalere di un’anima integralista. Un esito possibile, ma non scontato.
Lo scenario che oggi abbiamo davanti è ricco d’incognite, ma l’Occidente, e in particolare l’Europa, hanno la possibilità di dimostrare che i propri interessi non sono meglio tutelati da un dittatore sanguinario, ma dall’apertura di un processo democratico, che deve trovare un attivo sostegno e non la nostra cinica indifferenza sul filo di un realismo privo di ideali. Non farlo sarebbe la vera sconfitta politica, culturale e civile.
La Stampa 19.03.11