Perché ha vinto sempre il Cavaliere? È che con la crisi della prima Repubblica si è aggirato il tema vero: una ristrutturazione profonda del sistema di potere. Molti si chiedono in questi giorni come abbiamo fatto a cadere così in basso, come è possibile che accada ciò che accade. Si tratta di domande cui tutti dovremmo cercare di rispondere. A ben vedere uno degli aspetti singolari delle vicende attuali consiste nel fatto che i protagonisti di oggi sono in buona misura gli stessi che già operavano nei governi della «prima Repubblica» o loro collaboratori e sodali. Ciò è vero per il capo del Governo per alcuni ministri e persino per i faccendieri in attività, alcuni dei quali presenti non solo negli elenchi della P2, ma anche nelle cronache politicogiudiziarie del passato in quanto collegati alle vicende SindonaCalvi, o al riciclaggio di capitali, o alla mafia, alla camorra, alla banda della Magliana… In altre parole la seconda Repubblica appare come una prosecuzione distorta della prima; la vicenda di tangentopoli non è servita né a superare il malaffare di allora né tanto meno a creare una nuova classe dirigente come molti speravano potesse avvenire. La decadenza etica e politica che quella vicenda rendeva esplicita è continuata, anzi si è incrementata. Non vi sono anticorpi in azione né si vede capacità di riscossa, al contrario il Paese sembra avviato su un sentiero di decadenza economica e morale senza precedenti.
Ciò certifica evidenti fallimenti politici le cui origini vanno indagate e comprese. Molti sarebbero orientati a sottolineare che con le rivolte giustizialiste non si fanno riforme né si ricostruisce uno Stato e che anzi si creano le premesse per nuovi e più gravi disastri, ma si tratta di una spiegazione per così dire «tecnica» ( nel senso che normalmente ciò è quello che si verifica in questi casi) e parziale. Il fatto è che le forze che potevano in teoria opporsi ad una deriva degenerativa non sono state all’altezza del loro compito per insufficienze culturali e politiche, ma soprattutto perché non avevano la stessa interpretazione della vicenda italiana e del percorso di necessaria modernizzazione del Paese, e comunque non ne avevano una adeguata. Necessità già evidente negli anni ’70 (come bene aveva capito Moro) ma mai analizzata con consapevolezza e mai tematizzata esplicitamente, tanto che le pulsioni libertarie e progressiste (ancorché confuse) del ’68 furono lasciate degenerare prima nel massimalismo e nel terrorismo, e poi rifluire nell’individualismo rinunciatario del cosiddetto «edonismo reaganiano» di cui oggi viviamo la degenerazione finale , e nel corrompimento (ben più grave della corruzione stessa) delle classi dirigenti, oggi,addirittura imbarazzanti nella loro incompetenza e mediocrità.
All’origine di tutto ciò vi è probabilmente la situazione di democrazia bloccata in cui il Paese è vissuto per 50 anni e le divisioni radicali che essa provocò e che continuano ancora oggi ad essere riproposte, sia pure strumentalmente, creando diffidenza e condizionamenti. E a questo proposito grandi sono le responsabilità della sinistra (il Pci, ma non solo) per non essere stata in grado di affrontare per tempo in modo esplicito e trasparente i temi di una inevitabile evoluzione e cambiamento. Forse non era possibile, ma nei fatti i ritardi sono stati esiziali per il paese: l’assenza di alternativa ha creato un vuoto politico che ha facilitato la degenerazione della politica delle maggioranze di governo di allora sicure della propria forza e impunità. Successivamente, dopo il 1989, l’evoluzione vi è stata, in alcuni casi anche molto accelerata, ma essa non è mai stata tematizzata e quindi ha spesso creato confusione, oltre ad apparire sempre, e al tempo stesso, o insufficiente o eccessiva. Si sono così manifestate in modo chiaramente contraddittorio sia posizioni del tutto irragionevoli (soprattutto da parte sindacale) sia una acquiescenza acritica alle posizioni neoliberiste dominanti.
Al tempo stesso, dopo tangentopoli, la parte più consapevole del mondo cattolico ex Dc, pur condividendo la necessità di un nuovo equilibrio politico e di nuove alleanze, non si è posta il problema della necessità di compiere una analisi organica ed esplicita della degenerazione dei partiti di governo nella prima repubblica per trarne le necessarie conseguenze politiche; al contrario in non molti casi si è condivisa la tesi, se non del «complotto» dei giudici, di un loro eccessivo interventismo nel campo della politica. Né si volle approfondire il rapporto sempre più stretto tra crisi dei partiti, corruzione, abusi nell’economia pubblica, e lassismo tollerato in quella privata, che si traducevano nel clientelismo assistenziale, in rapporti ambigui con settori coinvolti nella illegalità, nella tolleranza dell’evasione fiscale, ecc. Le conseguenze sono state evidenti nella difficoltà di individuare una linea comune interamente condivisa all’interno del centrosinistra. In sostanza, dopo la crisi della prima Re-
pubblica sarebbe stato necessario affrontare il problema di una ristrutturazione consapevole del sistema di potere profondo che ancorché indebolito, rimaneva sempre lo stesso. Ciò non è avvenuto perché da un lato questa consapevolezza non vi è stata, o si è pensato di risolvere il problema con qualche privatizzazione o liberalizzazione, e dall’altro vi era chi riteneva che tutto sommato il sistema di potere andava bene così come era. In conseguenza il centrosinistra è andato al governo, ma non ha mai condiviso il potere, quello vero.
Tutto questo «non detto», non esplicitato, non «elaborato» ha contribuito inoltre a rendere conflittuali le coalizioni di governo e a complicare il lavoro di opposizione in un contesto di diffidenza reciproca che neanche la confluenza in un unico partito ha consentito (finora) di superare. L’esempio più evidente di questa situazione si può riscontrare nella contrapposizione artificiale tra tradizione social-democratica e liberal-democratica che viene spesso riproposta, come non fossero ambedue parte della tradizione della sinistra italiana.
Un ulteriore contributo è venuto da leggi elettorali che costringono a tenere insieme e a dare rappresentanza ad ogni spezzone di ceto politico che appaia capace di portare un contributo di voti contribuendo così alla delegittimazione della politica e al-
la confusione generale, e creando un’alternativa impossibile tra grandi ammucchiate velleitarie e improbabili aspirazioni egemoniche.
Né dalla cosiddetta società civile sempre evocata e da cui giustamente ci si aspettava una spinta al rinnovamento, è venuto un contributo utile: sempre ipercritica, polemica, insoddisfatta, pronta a rivendicare la sua presenza e il suo ruolo, ma ormai disposta a «sporcarsi le mani» nella politica di tutti i giorni, per quello che essa è. Dal canto loro i partiti non hanno mai considerato utile aprirsi veramente all’esterno, nonostante l’evidente discredito accumulato progressivamente. Sono così nati nuovi movimenti e partiti tutti intenti a fare il free-riding nella casa del vicino, piuttosto che a svolgere consapevolmente la loro funzione magari strumentalizzando lo strumento delle primarie. Le contrapposizioni personali hanno fatto il resto.
Stando così le cose non è sorprendente che Berlusconi possa aver vinto e governato per tanto tempo portando il Paese all’impantanamento attuale. È possibile superare questa situazione? Certamente ma non sarà compito né facile né di breve durata.
L’Unità 19.03.11