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"Il Carroccio disunito", di Michele Brambilla

I leghisti hanno boicottato le celebrazioni o vi hanno partecipato obtorto collo. Era scontato. Molto meno scontato, però, era che la Lega desse una prova di disunità non solo d’Italia, ma anche di partito. Contrariamente alla loro tradizione, infatti, dirigenti e militanti non si sono presentati compatti all’appuntamento. Già nei giorni scorsi c’erano stati alcuni segnali. Ad esempio a Milano, nel consiglio regionale, i lumbard se n’erano andati al bar mentre suonava l’inno di Mameli; però il leghista Davide Boni, che è presidente di quella assemblea, era rimasto in aula: con l’entusiasmo di chi deve pagare una cambiale, ma c’era rimasto.

Ieri poi un po’ tutto il partito ha dato l’impressione di non saper tenere la barra dritta. A Montecitorio s’è presentato un solo parlamentare leghista, tale Sebastiano Fogliato. Però i membri del governo c’erano tutti. Maroni a domanda sulla sua presenza aveva risposto «lasciatemi in pace», mostrando un certo nervosismo: però c’era. Bossi, che negli anni passati ci aveva fatto sapere quale uso avrebbe fatto del tricolore, c’era anche lui. Non ha applaudito il discorso di Napolitano, però ha detto che Napolitano ha fatto un buon discorso. Mentre suonava l’inno s’è messo a parlare con Tremonti, però si è alzato in piedi.

E ancora. Il quotidiano La Padania ieri titolava «150 anni di centralismo, che guasti», però il governatore del Veneto Luca Zaia ha partecipato alle celebrazioni con la coccarda tricolore. A Torino nessun leghista era presente in piazza Castello all’alzabandiera, però a Varese all’alzabandiera il sindaco Attilio Fontana (che è un fedelissimo di Maroni e il leader dei sindaci leghisti) c’era, e aveva perfino la fascia tricolore. Il presidente della Provincia di Bergamo Ettore Pirovano, padano e discendente di uno dei Mille, ha detto che «l’unità non può essere imposta», ma un altro importante amministratore locale della Lega, il sindaco di Verona Flavio Tosi, ha anch’egli partecipato all’alzabandiera indossando la fascia tricolore. Borghezio ha detto che le celebrazioni di ieri sono «soldi buttati» e che presto «ci saranno due Italie», ma sul balcone della sede della Lega di Varese – che del movimento di Bossi è la culla – qualcuno ha messo un tricolore.

Potremmo andare avanti a lungo. Non vogliamo dire che tutto questo dimostra una spaccatura interna sull’idea che i leghisti hanno dell’Italia. Probabilmente, anzi quasi sicuramente, alla stragrande maggioranza la secessione farebbe ancora più piacere che il federalismo. No, la spaccatura non è stata sulla linea ma su come mostrarsi, come manifestarsi al Paese e alla politica in un giorno come quello di ieri.

O meglio: più che di una spaccatura, si tratta di un disorientamento. La Lega, sempre molto abile nel fiutare i sentimenti popolari, forse non si aspettava che la festa dei 150 anni avrebbe così tanto risvegliato l’amor patrio degli italiani. Già i venti milioni di spettatori per Benigni a Sanremo erano stati un segnale. Adesso sono arrivate le feste di piazze, le città imbandierate, lo straripante affetto mostrato al presidente Napolitano. Chi ha avuto modo di vedere Torino in queste ultime ore non può non essere rimasto colpito dalla partecipazione popolare al centocinquantenario. Anche in quartieri multietnici come San Salvario il tricolore era ovunque.

Di fronte a questo imprevisto, di fronte alla sorprendente constatazione che il sentimento per l’Italia non era morto ma solo sopito, la Lega s’è trovata disorientata e non ha saputo presentarsi con il consueto celodurismo. E così ha probabilmente scontentato tutti: i non leghisti, che si aspettavano un atteggiamento più dignitoso, e la sua base, che se ne aspettava uno più bellicoso.

Viceversa il presidente Napolitano è arrivato in questi giorni a livelli di consenso e credibilità pari, se non superiori, a quelli di cui godeva Pertini. E se dopo tanta politica greve, volgare e priva di contenuti gli italiani si mettono a seguire un uomo come Napolitano, forse vuol dire davvero che qualcosa sta cambiando. Di tutte le riforme, questa sarebbe quella di cui abbiamo più bisogno.

La Stampa 18.03.11

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“Ma la Lega snobba la festa in aula arrivano solo in sei e i ministri non cantano l´inno”, di Alessadra Longo

Bossi: “Basto io”. E poi elogia il Colle. Dorina Bianchi in mise tricolore. I parlamentari del Pd sfoggiano coccarde. Calderoli in jeans e scarpe ginniche L´ammissione del deputato Allasia: “Io qui per forza”
Tre ministri, un sottosegretario, due deputati. Nel giorno della festa di tutti gli italiani, la Lega, partito di governo, si fa coinvolgere al minimo. Alla solenne celebrazione di Montecitorio, Camere riunite, discorso del capo dello Stato, gli ex presidenti della Repubblica Ciampi e Scalfaro in prima fila, lo stato maggiore del Vaticano e decine di diplomatici in tribuna, il Carroccio sceglie di esserci con Umberto Bossi e Roberto Maroni. I due, ovviamente, si guardano bene dall´intonare l´inno di Mameli affidato alla «banda interforze» (Bossi si alza in piedi in ritardo e controvoglia). Né applaudono, a differenza degli altri membri del governo, il presidente Napolitano quando parla, evocando Mazzini, di una «sola Italia». Il capo della Lega, trifoglio irlandese sul bavero, in onore di San Patrizio, è seduto vicino a Berlusconi (cui sfuggiranno, fuori protocollo, un paio di sbadigli). Bossi tamburella con le dita, un vago segno di approvazione dovuta, sfoglia una rivista, chiacchiera con Tremonti durante l´esecuzione dell´inno tanto che il ministro dell´Economia lo deve gentilmente invitare al silenzio. Vicino alla Gelmini, ecco Maroni a testa bassa, le mani ferme, non proprio entusiasta (ma poi dirà: «Ho molto apprezzato il discorso di Napolitano sulle spinte federaliste nel Risorgimento…»). E c´è anche Sonia Viale, sottosegretario, una statua di sale. Essere lì, a Montecitorio, tra coccarde, vessilli, commessi in alta uniforme, citazioni di Cavour e Cattaneo, è una tortura, un obbligo, una tassa da pagare. Un po´ come a scuola quando la campanella di fine lezione non suona mai e però tu devi stare seduto composto e rispettare la maestra. Roberto Calderoli, terzo ministro «precettato», e silente durante l´inno, nemmeno si avvicina ai colleghi di governo. Grondano troppo patriottismo. Alfano e Brunetta esibiscono sul banco persino due piccoli tricolori. Vade retro. L´abbigliamento del ministro della Semplificazione parla del fastidio che gli dà la solennità dell´evento: giacca blu, camicia verde, senza cravatta, jeans e scarpe da ginnastica.
E la truppa, gli oltre ottanta deputati e senatori leghisti? Tutti assenti, spariti, capigruppo inclusi. Solo due peones avvistati: l´onorevole Sebastiano Fogliato, imprenditore agricolo dell´Astigiano, cofirmatario di un progetto di legge «in favore dell´allevamento bovino da latte nei territori montani». Faccia rubizza, rassegnata. E il deputato Stefano Allasia, artigiano: «Non posso dire che mi faccia piacere stare qui. È un evento istituzionale, sono stato scelto per rappresentare il gruppo della Lega alla Camera». Un altro “padano”, Michelino Davico, si limita a passare per caso e bersi un caffè alla buvette. Poche le presenze? «Ma se ci sono io…», liquida Bossi. Esserci (in pochi) a Roma, non esserci altrove, il doppio forno. Imporre a tutti la propria presunta differenza ma poi, in finale, voltarsi verso il capo dello Stato, e applaudirlo: «Che bel discorso».
L´aula è piena, c´è persino un gruppo di ragazzi ammessi nell´emiciclo. Poche note di colore, affidate all´elemento femminile: Mara Carfagna in blusa rosso garibaldino, la senatrice Dorina Bianchi, tailleur bianco e sciarpa tricolore al collo (per la mise riceverà i complimenti di Napolitano: «Lei è un colpo d´occhio in mezzo all´aula…») e la senatrice Laura Bianconi, tailleur rosso, sciarpa bianco-rosso-verde. In questo clima di omaggio alla storia e alla memoria, il centrosinistra sembra più a suo agio. Il Pd sfoggia coccarde tricolori. «Le coccarde si usano solo sotto Natale», commenta Bossi.
Lassù in tribuna, il sottosegretario di Stato cardinal Tarcisio Bertone, il presidente della Cei Angelo Bagnasco, il nunzio in Italia, Giuseppe Bertello. Cantano l´inno italiano, mentre Bossi e Maroni rimangono muti. E sono cordiali, cordialissimi, con Romano Prodi, ospite in prima fila, con Ciampi e Scalfaro, accanto agli ex presidenti di Camera e Senato, Casini, Marini, Violante, Mancino, Bertinotti e Pera. «Buongiorno caro presidente» sussurra a Prodi il cardinal Bagnasco. Sembrano lontani i tempi della freddezza con la Chiesa, quando il leader dell´Ulivo, con gran irritazione della Cei, si autodefiniva «un cattolico adulto». Prodi è di ottimo umore, omaggiato platealmente da Bersani (discretamente da Veltroni). Una volta tanto le facce più distese sono quelle dell´opposizione. Fassino, candidato sindaco a Torino, sistema ridendo la fascia tricolore all´amico Chiamparino, Maria Pia Garavaglia porta addosso il tricolore come fosse lo scialle della nonna. Siede isolato il repubblichino Ciarrapico.
In un´occasione così solenne non sta bene scannarsi. Quelli di Fli evitano educatamente di fare a pugni con gli ex colleghi Barbareschi e Bellotti. Persino Berlusconi si rassegna ad applaudire (quel che basta) il discorso di Gianfranco Fini. Un discorso in cui appare una citazione dello storico Federico Chabod. No, con Schifani non si sono coordinati. Anche il presidente del Senato ha in serbo per la platea uno Chabod originale. Napolitano parla per 40 minuti, tre soli sorsi d´acqua. Chiude con passione: «Viva la Repubblica! Viva l´Italia unita!». L´applauso è corale. A sorpresa, deputati e senatori, intonano senza musica l´inno di Mameli. Sì, è finita. I leghisti tirano un sospiro di sollievo.

La Repubblica 18.03.11