L’anniversario è di tutti, o dovrebbe esserlo. Cominciamo col dire questo. Lo si capirà bene oggi pomeriggio, nell’Aula della Camera, quando il Parlamento in seduta comune ascolterà le parole solenni di Giorgio Napolitano, capo dello Stato e mai come oggi vero garante del patto costituzionale e repubblicano. Ma gli anniversari parlano. Raccontano sempre del clima del paese e dello spirito di un popolo.
Fu così un secolo fa, quando i primi cinquant’anni del Regno scontarono la polemica di cattolici, socialisti e repubblicani. E mezzo secolo dopo, a ridosso del boom, con una retorica soppiantata dalla celebrazione di un’epopea diversa, tutta interna al carattere bloccato della nostra democrazia. Erano, quelle di allora, contrapposizioni profonde, ideologiche e per fortuna archiviate. Ma oggi? Su cosa si fonda oggi la celebrazione di una unità che tutti dovrebbero avere compreso e assimilato? Nel bene e nel male l’Italia liberale, e ancora di più quella repubblicana, hanno inteso la patria come coscienza di un passato vissuto, ma soprattutto come la proiezione di un futuro comune. Possiamo dire lo stesso anche noi? Tutti noi? Perché poi si può discutere se il nostro Risorgimento sia stato effettivamente quell’evento fondativo che fu la “grande Rivoluzione” per la Francia o la Riforma per la Germania. Ma certo fa riflettere l’idea che nel 150° della nostra unificazione la guida del paese sia affidata a quanti di quella svolta storica contestano la natura e lo sbocco. Ed è tanto più preoccupante vedere come un tale sentimento, neppure represso, attraversi l’azione del governo e i suoi messaggi di fondo.
Peccato. Lo diciamo con la sensibilità e la responsabilità di un grande partito nazionale. Peccato che una parte della classe dirigente non abbia colto la portata morale e il valore simbolico del traguardo che raggiungiamo oggi. Come ha scritto Emilio Gentile, all’origine di quell’espressione – risorgere – vi era la spinta ad affrancarsi da una degradazione civile, individuale e collettiva. Più ancora che un progetto di integrazione dei territori si manifestava l’ansia di “conferire agli italiani una dignità di cittadini”. Una novità, e in fondo la più profonda delle rivoluzioni. L’antica nazione culturale affrontava la prova decisiva della sua unità spirituale e politica. Furono vicende drammatiche. Passaggi dolorosi, ma infine fu l’avvio di una parabola storica assolutamente unica che, alternando grandezza e tragedie, si è proiettata sino a noi.
Ecco perché c’è qualcosa di imponente non già nella data e non solo nell’anniversario in sé, ma nelle radici di ciò che oggi lo Stato e il popolo italiani sono chiamati a celebrare. Dietro e dentro la ricorrenza c’è l’Italia che ha combattuto per la propria dignità. Ci sono le radici della nostra democrazia. Di una Repubblica sorta sull’onda di una guerra di Liberazione. Vi sono il primo e il secondo Risorgimento. Con le biografie – le immense biografie – di una nazione che ha segnato del proprio destino il destino dell’Europa tutta. Di questo stiamo parlando. Eppure il tempo alle nostre spalle sembra aver incrinato proprio quelle premesse, al punto che la stessa unità del paese ad alcuni non pare più un sacro principio da difendere. E per la prima volta una secessione degli animi vorrebbe anticiparne altre, nelle regole, nei principi, nella forma stessa dello Stato.
La destra su questo ha fondato il suo lavorio. Ha negato legittimazione agli avversari e spinto per dissolvere i fattori coesivi. Un’opera tutt’altro che rozza che è transitata dal modo di concepire materie sensibili, il patto fiscale, la sicurezza, le identità dei territori. Da lì, a scendere, lo sfregio delle regole, un Parlamento svuotato di funzioni fino alle conflittualità esasperate verso le istituzioni di garanzia. Hanno cercato di rompere la struttura del paese con un racconto dell’Italia dove via via evaporava l’intera nostra storia e tradizione democratica.
A tutto questo noi, in questi mesi, ci siamo opposti e continueremo a farlo. Ma con la stessa determinazione diciamo che siamo i primi a voler fondare una nuova unità dello Stato e un nuovo patto repubblicano che sia finalmente all’origine di una patria comune e di una coscienza civile capace di rispettare sempre le differenze di giudizio e di pensiero ma in una identità democratica condivisa. A partire, ovviamente, da un federalismo che unisce e non divide, coinvolgendo tutte le parti del paese, nessuna esclusa. La nostra sfida è saldare il destino dell’Italia a una nuova Europa e a un mondo nuovo. Un mondo dove molto, forse tutto, è destinato a cambiare. E allora la vera domanda per noi non è cosa siamo stati, ma cosa saremo. Quale paese lasceremo a chi verrà dopo.
L’Italia liberale affidò il compito di formare un “carattere italiano” all’esercito e alla scuola. Il fascismo volle militarizzare la questione. La Repubblica visse tra chiese divise e doppie lealtà, ma in fondo trovando nei partiti di massa la spinta per una modernizzazione epocale, seppure depennata da sintomi patriottici, poiché il mito nazionale fu presto soggiogato al primato delle ideologie. La forza del nostro tempo – la speranza di questo 150° – è nella possibilità di combinare in forme nuove democrazia, cittadinanza e un’etica pubblica rigenerata.
Ce la possiamo fare. Davvero. Ce lo dicono le piazze che in questi mesi si sono riempite di giovani, donne, lavoratori. Ce la possiamo fare se contrasteremo quello che Baudelaire, col senno del suo tempo, aveva chiamato “l’avvilimento dei cuori”. Ci si avvilisce quando si scopre di essere privi di difese. Esposti al ricatto del più forte. O quando si è convinti di non avere un tempo davanti, ma solo il peso gravoso di molte eredità. Il Partito Democratico è nato per fare l’opposto. Noi siamo nati per restituire speranza, coraggio e fiducia a un paese che lo merita. E anche per questo oggi esporremo il tricolore fuori dalla finestra di casa.
L’Unità 17.03.11