Non solo nucleare. E’ probabile che nel prossimo futuro ci volteremo indietro e guarderemo a questi mesi come alla fine complessiva di una intera epoca energetica. Almeno dal punto di vista dell’opinione pubblica. Va considerato infatti che di disastri ne abbiamo sofferti ben due in questo ultimo anno, e che entrambi hanno seppellito, sotto le loro scorie, la affidabilità delle due più rilevanti energie del nostro sviluppo finora – il nucleare e il petrolio. La esplosione della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon che portò al versamento di 4,9 milioni di barili di petrolio nel Golfo del Messico risale a solo undici mesi fa, il 20 aprile del 2010. Comparata alle radiazioni nucleari di oggi la lunga agonia di quel fluire in mare di materia viscosa appare infinitamente meno dannosa, più contenibile, ma la sua memoria e, soprattutto, i suoi effetti sull’ambiente non sono ancora spariti. Se la opzione nucleare appare oggi terrorizzante, l’esplosione della piattaforma della Bp ha segnato nella opinione pubblica un punto di non ritorno anche nella disponibilità ambientale a favore del petrolio. Il perfetto incatenarsi dei due incidenti si fa anche più chiaro se si ricorda che proprio il disastro del Golfo del Messico aveva ridato fiato e credibilità alla opzione nucleare. Il doppio incidente ha già ridotto dunque di molto lo spazio in cui decidere le future politiche energetiche.
Un esempio perfetto dello sbandamento che questi avvenimenti hanno già imposto alle scelte dei governanti ci viene proprio dagli Stati Uniti, che sono, dopo il Giappone, il Paese maggiormente toccato, sia pur in forme diverse, dai disastri di cui parliamo. Ed è una storia che vale forse riprendere dall’inizio perché spesso, almeno finora, si è persa di vista.
Nella agenda di Obama, l’energia è sempre stata seconda solo alla riforma della assistenza medica. Fin dalla campagna elettorale ha promesso agli Usa sicurezza energetica, cioè il progressivo affrancarsi dalla sua massiccia dipendenza petrolifera – obiettivo ambiziosissimo e rivoluzionario per una nazione che negli ultimi 50 anni è stata quasi permanentemente in guerra per assicurarsi certezza di rifornimento. Il progetto obamiano si presenta come molto originale. Contrariamente al suo profilo da sognatore, Obama sul tema energetico non è un ambientalista «puro»: vuole lo sviluppo di energie rinnovabili, ma propone anche un forte «revisionismo» sull’uso di petrolio e nucleare. I suoi primi passi da Presidente sono sorprendenti – riapre la concessione di permessi di estrazione in mare lungo le coste americane, incluse aree considerate intoccabili, chiedendo al Paese di avere fiducia nella tecnologia e chiudere la pagina del grande disastro della Exxon in Alaska. La sfortuna sembra però piagare questo piano. L’annuncio è del 31 marzo, il 20 aprile c’è il Golfo del Messico e i permessi sono sospesi.
Come si ricorderà, Obama sbandò di fronte a quell’incidente, al punto da apparire, e probabilmente essere, in un primo tempo passivo. Nel Golfo del Messico va in fumo infatti un pezzo importante della sua proposta. A fine anno però l’Amministrazione ci riprova. A gennaio 2011 presenta il piano per il rilancio del nucleare. Gli Stati Uniti producono il 20 per cento della loro elettricità con 104 centrali. Dopo l’incidente di Three Mile Island del 1979, non ne sono più state costruite. Obama ne propone 20 nuove, con un investimento di 36 miliardi di dollari, sostenendo che proprio il disastro del Messico prova che è questa la energia più pulita e più rispettosa dell’ambiente. Nel nuovo clima il piano riscuote un ampio consenso di democratici, repubblicani, e di molti gruppi ambientalisti. Anche il New York Times, come ricordava proprio ieri il giornale, dopo tanti anni si schiera con il nucleare. Ed ecco arrivare il Giappone. Obama appare piagato dalla sfortuna. In realtà i suoi alti e bassi sono la perfetta rappresentazione di quanto stretti si siano fatti i margini di manovra per ogni decisione energetica.
Lo spazio appare ancora più ristretto se vi si include l’intreccio di tutte le scelte che ogni governo dovrà fare, ciascuno con le proprie priorità. Ad esempio, Cina e India, le due nazioni che al momento consumano più energia al mondo, e che sono avviate con convinzione e rapidità sulla strada del nucleare. La Cina ha 11 reattori e ne progetta dieci all’anno per i prossimi dieci anni per rispondere al suo consumo elettrico che cresce del 12 per cento l’anno. L’India ha 20 reattori nucleari e progetta di spendere 150 miliardi di dollari per dotarsi di altri dodici. Ma il nucleare gioca un ruolo persino in Medioriente, una regione che proprio perché affogata nel petrolio ben conosce la volatilità di questa materia prima. C’e l’Iran, di cui tutti sappiamo; e ci sono gli Emirati Arabi, che lavorano a 4 centrali. La Giordania, il Kuwait, il Qatar, il Bahrein, hanno allo studio progetti, e la stessa Arabia Saudita vuole una città completamente alimentata dal nucleare. In sintesi, secondo la World Nuclear Association nel mondo si contano 443 reattori nucleari, e dovrebbero raddoppiare in 15 anni. Non sfugge dunque a nessuno che, qualunque sia il futuro italiano, si dovrà tenere conto di un processo di evoluzione che è molto più grande di noi.
La Stampa 16.03.11