L’ex diplomatico passato con gli insorti: «All’Onu bisogna battersi per linea dura di Parigi e Londra. All’Italia chiediamo più coraggio, più determinazione. Chiediamo fatti e non parole. Perché sui fatti che sarà valutata dal popolo libico che si è rivoltato contro la dittatura di Muammar Gheddafi. Se il governo italiano non assumerà un atteggiamento più intransigente, ci saranno in futuro serie ripercussioni nelle relazioni tra i due Paesi, perché il popolo libico si libererà di Gheddafi. L’Italia deve cambiare atteggiamento».
A sostenerlo è uno dei diplomatici di primo piano che è passato dalla parte degli insorti: l’ambasciatore Ibrahim Dabbashi, numero due della delegazione libica alle Nazioni Unite. «Gli aiuti umanitari sono importanti ma non bastano. All’Italia – afferma Dabbashi – chiediamo di essere dalla parte di Francia e Gran Bretagna nel sostenere l’istituzione di una “no fly zone” sulla Libia. Procrastinare questa decisione, o osteggiarla nei fatti, significa fare il gioco di Gheddafi. Esserne complici». «Non abbiamo bisogno di aiuti militari, non chiediamo l’intervento militare di alcun Paese – ribadisce l’ambasciatore Dabbashi il popolo libico saprà sconfiggere il regime di Gheddafi da solo. Ma certamente abbiamo bisogno di aiuto per quanto riguarda il rispetto di una ‘no fly zone’, per evitare bombardamenti. Su questo chiediamo l’aiuto dei Paesi amici del popolo libico per bloccare il regime di Gheddafi dall’usare lo spazio aereo libico contro il suo popolo». Nella Comunità internazionale, come dimostra lo stesso vertice di Parigi dei ministri degli Esteri del G8, permangono divisioni in merito alla creazione di una “no fly zone” sulla Libia. «Divisioni e incertezze fanno il gioco del regime. Di questo occorre avere coscienza e di questo ognuno deve assumersi le proprie responsabilità. Le parole non fermano gli aerei di Gheddafi. Con i suoi aerei, Gheddafi bombarda le città libiche, sposta armamenti pesanti e mercenari. Agli incerti in buona fede chiedo: ma come pensate di fermare quegli aerei? E come intendete fermare la mano di un dittatore che non ha esitato a far sparare contro chiunque è sceso in piazza per rivendicare diritti e libertà? Noi non chiediamo l’intervento militare di alcun Paese. Il popolo libico saprà sconfiggere il tiranno. Ma certamente abbiamo bisogno di aiuto per quanto riguarda il rispetto di una “no fly zone”, per evitare bombardamenti. E abbiamo bisogno di questo aiuto subito. Cosa altro si vuole che accada: un immane massacro a Bengasi? Si vuole che Gheddafi faccia di Bengasi la nuova Srebrenica?».
In questo scenario, cosa chiedete alla’Italia? «Più coraggio, più determinazione. Più fatti e meno parole. Gli aiuti umanitari sono importanti ma non è questa la priorità. All’Italia chiediamo di schierarsi con Francia e Gran Bretagna nel sostenere la “no fly zone”. A chiederlo è anche la Lega Araba».
Il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, rimanda ogni decisione in merito al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite…
«Intanto dica chiaramente se l’Italia intende sostenere la “no fly zone” e appoggiare i Paesi che nel Consiglio di Sicurezza se ne fanno sostenitori. Non basta dire che nella Libia di domani non c’è posto per Gheddafi. Perché Gheddafi non se ne andrà mai di sua spontanea volontà, e si illude chi pensa che il problema sia garantirgli un salvacondotto e l’impunità per i crimini che ha commesso. Gheddafi è animato da uno spirito di vendetta. È accecato dall’odio. Parlare di un suo coinvolgimento per una transizione ordinata è un insulto alla ragione».
Gheddafi ha minacciato di allearsi con Al Qaeda… «Prima ha agitato lo spauracchio di Al Qaeda ora minaccia di allearsi con Osama Bin Laden…La logica è sempre la stessa: quella del ricatto. Gheddafi è abile in questo: ricatta o compra. Sta al mondo libero dimostrare di non voler subire ricatti e di non essere in vendita».
Ambasciatore Dabbashi, Lei insiste molto sul fattore tempo… «Mentre stiamo parlando, mentre la Comunità internazionale si arrovella attorno sul sì o il no alla “no fly zone”, gli aerei di Gheddafi continuano a colpire, a spostare armi e mercenari, a seminare morte e terrore. Pensino a questo coloro che frenano sulla “no fly zone».
L’Unità 16.03.11
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«Il mare è pericoloso ma non c’è scelta: in Libia sparano… », di Manuela Modica
I cadaveri che riaffioreranno nei prossimi giorni saranno raccolti dai pescatori. «Ma alcuni li rigettano in mare sussurra un anziano se li dichiari rischi di stare fermo al porto per giorni e giorni… ». È di nuovo emergenza. Gli sbarchi di lunedì fanno precipitare Lampedusa nel caos. L’isola più a sud d’Italia, così vicina al nord Africa, accoglie più migranti di quanto non riesca a contenerne. Sono 2629, e il centro di accoglienza ha una capienza di solo 800 unità. Così che «siamo di nuovo punto e daccapo», dice Giusi Nicolini che offre i locali dell’Area marina protetta, per ospitarne 150, come aveva già fatto nei primi giorni di questa nuova ondata di migrazione quando il Cpsa era ancora chiuso. Un locale predisposto per convegni e mostre, con bagni da “ristorazione”. Lì dove gli albergatori, riuniti nel comitato spontaneo “Porta d’Europa”, si riunivano giovedì scorso per chiedere che i migranti non fossero più trasferiti sull’isola. Ne sono arrivati, invece, molti di più ad alimentare la paura di gente di mare che vive di turismo ma non riceve più prenotazioni, nonostante la stagione estiva sia ormai alle porte.
Così che il passaggio di Marine Le Pen, lunedì mattina, sembra aver aperto una settimana di “passione”, di nuovi disagi per gli abitanti dell’isola: «Come un oscuro presagio, commenta la Nicolini non sappiamo più cosa pensare: sembra studiato a tavolino. Così sarà difficile contenere la paura: è una situazione molto grave». Tanto grave che riapre ai migranti anche la “Casa della fraternità” della parrocchia di Lampedusa, che ne ospiterà 200, di nuovo. Situazione complicata anche dal meteo che blocca la nave per i trasferimenti della Siremar a Porto Empedocle lasciando lo ”svuotamento” dell’isola ai soli mezzi aerei. Pochi voli giornalieri, che possono trasportare un numero irrisorio: «Solo 270 oggi (ieri, ndr). È una situazione traumatica», spiega anche Cono Galipò amministratore del centro di accoglienza, i cui operatori sono ora a lavoro su tre centri contemporaneamente.
LE TRAVERSATE DELLA MORTE
Sono giorni difficili per gli abitanti dell’isola siciliana. Ma sono giorni drammatici ancora più per i tunisini che perdono nella traversata “fratelli” in mare proprio sotto i loro occhi. Navigano per giorni sfidando la morte, e perdendo. La “mano del mare”, l’altra notte, ne ha risucchiati 45 almeno. Sotto gli occhi di compagni di viaggio imbarcati su un altro mezzo. «Sono morti, morti», raccontano arrivati al molo Favaloro, dove si fermano per aspettarli, per capire se qualcuno di loro è stato tratto in salvo. Hanno fatto quel che potevano, hanno salvato chi di loro sapeva nuotare ed è arrivato vicino alla loro imbarcazione. Mani tese ad aiutarli, corpi bagnati. Sopravvivenza per i più fortunati. Per gli altri, il fondo del mare. Saranno forse riportati un giorno alla luce dai pescatori siciliani.
Così, infatti, accade a qualcuno. Al centro per anziani, nella via principale del paese, dove molti pescatori giocano a briscola raccontano: «Sì, a qualcuno di noi è capitato, ma capita di più ai pescatori di Pantelleria. E quelli magari li ributtano a mare. A dichiararli, finisce che stanno fermi al porto per giorni e giorni, per i controlli della guardia costiera. Così viene meglio ributtarli in mare, ha capito?».
Uno scenario macabro, dissonante dalle spiagge caraibiche dell’isola, dalla luce che abbraccia senza respiro questa piattaforma sul mare che sembra poter concedere solo vita, solo ristoro. Solo speranza a chi ha la morte anche alle spalle: «Abbiamo visto morire fratelli e sorelle. E ne muoiono ancora. Sparano, senza una ragione. Il viaggio fin qui è rischioso, ma restare lì lo è di più», Xavier, è sull’isola da 7 giorni, e dà voce a frasi che stonano con la giovane età: ha solo 22 anni. Quando arriva sull’isola è fatto d’acqua. Sul molo riceve la prima assitenza, una sorta di coperta – ricorda il domopack – d’oro che lo avvolge, che lo riscalderà in un istante. Lui non sfugge ai fotoreporter, alle telecamere, guarda dritto nell’obiettivo, si mostra così, con l’acqua in fronte, l’oro dello strano, miracoloso, involucro, che lo avvolge. Mostra così le sue traversie, senza imbarazzo, ma con espressione atona. Ai piedi non ha scarpe. E così sale sul pullman che con gli altri lo trasporterà al Cpsa. Alza la mano, mentre va via, in segno di vittoria. Per loro è una lotta vinta. Così entrano al centro di prima accoglienza, intonando un coro da stadio, interrotto dalle perquisizioni. Poi viene consegnata a questi vittoriosi di vita, una borsa con vestiti, dalle scarpe ai maglioni, più una ricarica di 5 euro per chiamare casa, e avvertire che sono vivi: ce l’hanno fatta. Sono nelle mani dell’Italia adesso, che però non sa che farne: «Dalla prefettura ci fanno capire che non sanno in realtà dove mandarli», racconta la Nicolini.
L’Unità 16.03.11