Ci si attendeva lo sberleffo leghista in vista del 17 marzo. È arrivato puntuale nella cornice del Consiglio regionale della Lombardia, quando i rappresentanti del Carroccio si sono rifiutati di entrare nell’aula dove veniva eseguito l’inno di Mameli. Sono rimasti al bar guidati da Renzo Bossi, il famoso «Trota» della vulgata giornalistica.
Ha fatto eccezione il presidente del Consiglio regionale, Davide Boni, un leghista che ricopre un ruolo istituzionale e che non si è mosso dal suo posto, sia pure con rammarico.
Ha spiegato che con il cuore era alla «buvette», accanto ai compagni di fede politica, e che a suo avviso l’esecuzione dell’inno nazionale rappresenta «un rito demagogico». Si tratta dello stesso Boni che si è battuto con successo nelle scorse settimane per istituire una sorta di festa regionale della Lombardia: un ostentato contrappunto rispetto alla festa nazionale.
Qualcosa di simile si è ripetuto nelle sedi dei Consigli provinciali di Milano e Verona: sempre a opera della Lega e sempre utilizzando le note di Mameli come pretesto polemico.
Si dirà che si tratta di episodi minori, dei quali peraltro avevamo avuto vari segni premonitori. Era noto che la Lega voleva marcare in qualche modo la propria «diversità» rispetto al centocinquantenario e così è stato. Qualcuno vorrà anzi sottolineare che poteva andare peggio. In realtà la contestazione all’inno è tutt’altro che irrilevante. È un gesto carico di significato rivolto contro il simbolo stesso dell’unità nazionale. Un gesto deciso a ridosso della data emblematica del 17 e nelle stesse ore in cui Giorgio Napolitano rendeva omaggio al federalismo, cavallo di battaglia del Carroccio.
«L’identità storica e culturale della nazione – ha detto il presidente della Repubblica – convive con il riconoscimento e lo sviluppo in senso federalistico delle autonomie che la fanno più ricca e più viva». Parole che riassorbono il federalismo nello spirito e nella lettera della Costituzione e ne fanno il tassello decisivo di una più salda unità.
Purtroppo la Lega non sembra muoversi a suo agio dentro questo solco. Al contrario, l’insofferenza verso l’inno nazionale o il Tricolore tradisce un certo disprezzo per l’Italia unita. Per la dimensione etica e politica dell’unità.
Napolitano chiede un più convinto senso unitario per aprirsi alla novità federalista. I leghisti replicano con un’astuzia verbale. Festeggeremo l’unità – dicono – quando l’Italia sarà federale. In questa distinzione si avverte un’ambiguità molto insidiosa. Di fatto il federalismo all’italiana prende corpo, un passo dopo l’altro, senza che un importante partito di governo, rappresentante di circa il dieci-undici per cento del corpo elettorale, abbia deciso se crede o no nell’unità nazionale.
È possibile che siano i fatti a sciogliere nei prossimi anni questa ambiguità. Man mano che il federalismo entrerà nella vita quotidiana dei cittadini, le polemiche di oggi evaporeranno un po’ per volta. Ma potrebbe anche accadere il contrario: che a evaporare siano i simboli dell’unità come l’abbiamo conosciuta e come ci accingiamo a festeggiarla domani. In questo caso avremo un’Italia post-unitaria: con forti regioni molto autonome (soprattutto al Nord, molto meno al Sud) e un debole Stato centrale. Se sarà così, a essere ferita sarà l’idea stessa di nazione. La partita è tuttora aperta. E le contraddizioni di oggi non aiutano a concluderla.
Il Sole 24 Ore 16.03.11