Le date del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro e degli uomini della sua scorta, sono incise nella storia dell’Italia. Anzi ne segnano una svolta: in quella primavera, infatti, finì la politica democristiana ed ebbe inizio il cammino che attraverso fasi diverse e apparentemente anche contraddittorie, si è poi compiuto nella forzatura della democrazia in favore del potere personale, oggi giunto al suo apice (e tanto vale per la sua evidenza, non parlarne affatto). Per questo fondamentalmente il ricordo di Aldo Moro non può essere rituale, ma storico e politico. Cominciando dalla discussione sulla periodizzazione della storia italiana recente. Con molti buoni argomenti Roberto Fontolan e Antonio Socci fissarono con un celebre (e per certi aspetti impietoso) saggio, il termine nel quale la storia italiana sarebbe finita e, quindi, ripartita.
Quella data era il 1974, l’altra primavera nella quale con il referendum sul divorzio si bruciò la convinzione (un po’ ottusa) di un’Italia a maggioranza “cattolica”. Con la vittoria dei divorzisti l’idea di una cristianità capace di costituire il principale orientamento culturale del paese venne meno. Purtroppo, proprio in quella durissima vicenda, andò in crisi anche la sinistra Dc, sopraffatta dall’esposizione mediatica dei «cattolici del no» che poi si sarebbero organizzati nella «lega dei cattolici democratici ». Una drammatica scorciatoia che, lungi dal salvare le ragioni politiche dei cattolici, di fatto (anche se non intenzionalmente), delegittimandola, favorì la crisi e, dunque, la fine della Democrazia cristiana.
Ma Aldo Moro, pur avendo avvertito sin dal ’68 quelli che chiamò «i tempi nuovi » e pur avendo mostrato una palpabile perplessità nella campagna referendaria del divorzio, ritenne suo dovere tenere il timone del partito per guidare la difficile transizione del paese.
Più da statista che da uomo di parte. Né dovrebbero essere sottovalutate le attenzioni che Moro negli ultimi anni della sua vita (nel pieno, però, del suo vigore intellettuale) ebbe per i giovani delle associazioni e dei movimenti. In un periodo che segnò un approfondimento della percezione della stato di crisi religiosa, in Paolo VI, anch’egli impressionato dal risultato referendario. E tuttavia proprio quegli ultimi quattro anni vissuti da Moro e da Paolo VI, dal ’74 al ’78, fanno propendere per una periodizzazione che, pur tenendo in gran conto la svolta del ’74, fissi il suo termine ultimo nel 1978 e nelle sue date incise nel cuore stesso della nostra storia: 16 marzo – 9 maggio martirio di Moro; 6 agosto transito al cielo di Paolo VI; 26 agosto – 28 settembre il “sorriso” di Papa Luciani ed, infine, il 16 ottobre l’elezione al soglio di Pietro di Wojtyla il “grande”.
Per chi ha memoria diretta di quel tempo, l’idea che in quell’anno cruciale le strutture profonde della storia abbiano avuto un assestamento importante, era plasticamente rappresentata dalle parole del Papa polacco, «non abbiate paura, solo Cristo sa cosa c’è nel cuore dell’uomo». Non era solo l’inizio di un pontificato, ma un incoraggiamento ad andare avanti, ad entrare in una storia nuova; allora inimmaginabile. Drammatica come, nel suo testamento, la definì Paolo VI. Gli echi della battaglia del divorzio erano ormai lontani, anche se le conseguenze di quella scelta erodevano silenziosamente la trama culturale e umana della società, con gli esiti che oggi chiaramente ci preoccupano, restituendo così un po’ di ragione a chi, pur tra molte incomprensioni, ebbe il coraggio di preconizzarle, ma non la forza creativa di trovare una soluzione meno dirompente di un referendum. Wojtyla, come si disse, prese per mano l’umanità ed aprì le finestre chiuse dei regimi dell’est comunista. E chi guarda gli almanacchi di quegli anni, troverà una serie di eventi strabilianti che condussero all’implosione di quei regimi che tutti avevamo creduto graniticamente intangibili.
La storia è nota e però spinge a interrogarci sulle differenze tra il prima e il dopo. Cominciamo col dire che nessun democristiano ha regalato agli italiani pensieri non scontati sulla crisi e la fine del comunismo. Un fatto triste che dimostra inequivocabilmente l’appiattimento di una intera classe politica su un potere del quale, però, da tempo non avevano più la guida se è vero che gli anni ottanta trascorsero, comunque, sotto il segno di Craxi il quale, al di là dei molti aspetti criticabili, ebbe una visione alta dello Stato, sia nella revisione del Concordato con la Chiesa (impresa non riuscita a nessun democristiano), sia nella pericolosissima vicenda di Sigonella.
Insomma nel pieno dell’era Wojtyla che pure al secondo convegno ecclesiale di Loreto (1986) invitò i cattolici all’unità e all’impegno politico nell’esempio di Sturzo e De Gasperi, i cattolici impegnati in politica non seppero cogliere i valori di quel magistero scritto con parole inedite e coinvolgenti.
Se ci fosse stata una cristianità diffusa, come c’era ancora negli anni sessanta, quell’invito sarebbe stato raccolto; ma allora la debolezza “clientelare” della Democrazia cristiana e la superba sfiducia nei suoi confronti dei “cattolici democratici”, resero sterile e tardivo quell’invito. E, solo pochi anni dopo, la vera alternativa si manifestò nel baratro in cui la Dc precipitò e giacque.
La storia non si fa con i “se” per cui è del tutto inutile domandarsi che cosa sarebbe accaduto se Moro non fosse stato ucciso. Non inutile, invece, è ricordare che con l’uccisione di Moro andò in crisi, fino a smarrirsi quel “senso dello Stato” che, al di là dei vari collateralismi, resero unica l’esperienza politica della Democrazia cristiana.
E non credo neppure inutile affermare che quel “senso dello Stato”, affondava le sue radici in quella cristianità diffusa capace di dare ragione sociale all’impegno politico. E il vero senso dello Stato, mi si perdoni per la ricorrenza dei 150 anni dell’Unità d’Italia, non è nella retorica celebrativa delle declamazioni patriottiche e resistenziali, ma nella fatica politica della rappresentanza sociale. Moro e con lui molti democristiani della sua epoca a partire da Fanfani, Gonella, Taviani e tanti altri, ebbero cura di questa rappresentanza che, pur avendo i natali nella matura coscienza cristiana e sicuramente proprio per questo, sapeva assumere su di sé laicamente il carico più generale dell’intera società.
Come si è detto, Aldo Moro prima degli altri lesse nelle pieghe del ’68 la nascita di «tempi nuovi» da interpretare e rappresentare politicamente. E, nonostante, le sirene dei referendari e dei «cattolici del no» suoi strettissimi amici, tenne dritta la barra del timone non diversamente da quando segretario del partito, alla vigilia del centrosinistra, consultò tutti i vescovi per sapere che ne pensavano, per poi assumersi laicamente il carico di una scelta che gli costò incomprensioni e anche ostilità.
Ma quella scelta, come la storia ha dimostrato, fece bene all’Italia e rese lo Stato più prossimo ai cittadini.
Quello era il suo «senso dello Stato», lo stesso che lo persuase a ricercare e trovare punti di incontro e di condivisione con il Pci, non per desiderio di potere, ma per salvaguardare l’Italia dalla crisi civile di una insanabile spaccatura. Il problema per Moro non è mai stato quello di essere “di sinistra”, ma di dare al Paese il governo socialmente giusto e ampiamente condiviso. Laicamente senza pregiudizi. E chi ricorda la stretta di mano di Moro e Berlinguer al tavolo della trattativa nel febbraio del 1978, può ben pensare che quelle seguite negli anni fino ai nostri giorni, non hanno più avuto lo stesso valore politico.
Moro e Berlinguer non la pensavano allo stesso modo, entrambi però, sia pure per strade diverse, ebbero il coraggio del senso sociale dello Stato. Un sentimento che è, e resta, il grande insegnamento di Aldo Moro e che, a distanza di 33 anni è ancora il punto di discrimine tra ciò che è politicamente giusto, e ciò che, invece, è sbagliato.
da Europa Quotidiano 16.03.11