Relazione d’apertura di Matteo Orfini all’incontro organizzato dal PD per discutere del futuro dei Beni culturali.
Abbiamo deciso, dopo molto tempo, di chiedervi di discutere con il Partito Democratico non genericamente di cultura, ma di beni culturali.
Lo abbiamo fatto perché sentiamo l’esigenza di entrare nel merito di alcune questioni, di affrontare senza timidezze o imbarazzi alcuni nodi, di riflettere insieme sulle cose da fare.
Lo abbiamo fatto provando a costruire un ragionamento nei mesi passati insieme ad alcuni di voi, che ringrazio per il contributo importante di idee ed elaborazione.
Queste riflessioni si sono accompagnate al lavoro prezioso dei nostri gruppi parlamentari, impegnati quotidianamente ad arginare l’opera di destrutturazione della cultura prodotta da questo governo.
Un metodo di lavoro a cui crediamo molto, perché un’idea di riforma per essere efficace può venire solo dal confronto con chi quotidianamente vive e affronta le problematiche di un settore così complesso: la giornata di oggi ha il senso di un primo momento di verifica, per comprendere se la strada che vorremmo imboccare sia effettivamente quella giusta.
Questa nostra riflessione si svolge però in una situazione di grande sofferenza per i beni culturali: ormai da più di un mese siamo di fatto senza un ministro in carica.
Non è un caso, ma solo il tragicomico atto finale di una stagione assolutamente fallimentare.
La crisi di questo biennio racconta di un continuo svuotamento e di una costante umiliazione del ministero, delle sue funzioni tecnico-scientifiche, delle sue competenze.
E’ una questione prima di tutto di risorse.
I dati sono noti. In dieci anni il bilancio del Mibac è passato dai 2,386 milioni della finanziaria 2001 agli attuali 1,429 milioni di euro.
A questa cifra, valida fino alla scorsa settimana, vanno sottratti altri 77 milioni di euro che fanno precipitare il bilancio del Mibac a 1, 35 miliardi di euro: è stato sottratto un miliardo di euro in dieci anni dimezzando, nei fatti, il bilancio statale per la cultura.
I soli investimenti per la tutela dei beni artistici e archeologici sono stati decurtati tra 2008 e 2010 di circa 75 milioni di euro.
Lo scheletrico bilancio, tra l’altro, è ormai interamente dedicato alla spesa corrente mentre gli investimenti sono stati pressoché eliminati.
Un ministero per la cultura che non investe e che, invece, tenta semplicemente di sopravvivere è quello che ci ha regalato questo governo.
Come se non bastasse, la speculare riduzione dei trasferimenti a regioni ed enti locali priverà anche di quello che in questi anni è stato lo strumento che ha consentito la sopravvivenza a molte istituzioni culturali.
Investire così poco significa accettare il degrado, la lenta e inesorabile distruzione del nostro patrimonio.
Occorre invertire radicalmente la rotta, a cominciare però da un preliminare ripensamento delle priorità: occorre puntare sulla manutenzione ordinaria, quotidiana e sulla diagnostica preventiva più che sugli eventi e sulla spettacolarizzazione.
Una riflessione che si deve allargare anche agli enti locali, i cui assessorati alla cultura troppo spesso rischiano di trasformarsi in impresari e animatori.
Una tutela serie e rigorosa è la condicio sine qua non della fruizione dei beni.
Non si tratta certo di negare l’esigenza della valorizzazione, anche se il concetto è vago e per questo interpretabile nei modi più diversi, nato forse più per ragioni politiche (l’esigenza di dare maggiori spazi di manovra agli enti regionali senza intaccare l’esclusività dello stato sulla tutela) che non per una reale esigenza sociale.
Non c’è dubbio che dal dopoguerra ad oggi il numero dei fruitori potenziali sia cresciuto con una velocità maggiore di quella dei fruitori reali e che musei, siti e spazi espositivi italiani non siano riusciti a fare il salto funzionale oltre che culturale verso la modernità.
Il patrimonio culturale è rimasto, a prescindere dalla dichiarazione di intenti della Costituzione, una questione per pochi, un discorso riservato ad un ristretto gruppo di persone: in definitiva non ha veramente affrontato la sfida della democrazia.
Per questo riteniamo che più che di valorizzazione si debba parlare di sostegno alla fruizione e alla conoscenza perché è proprio la conoscenza la premessa necessaria a una tutela sempre più attiva e diffusa.
Il patrimonio culturale c’è, esiste, va conservato, mantenuto, restaurato quando è necessario, reso disponibile e comprensibile ai pubblici.
Sono i fruitori a dover essere valorizzati.
Ed in questo senso emerge un’altra attività da troppo tempo trascurata dal Mibac: la ricerca.
Essa è il presupposto necessario per stabilire cosa si debba tutelare, ciò che senza rischio possa essere offerto alla fruizione e ciò che invece si debba escludere.
Ma è ancora la ricerca a indagare quali siano i migliori sistemi di fruizione, le strade della divulgazione, le aspettative e le esigenze dei pubblici, specie di quelli più inesperti.
Non sappiamo chi nel nostro paese frequenti i musei, non sappiamo quanti siano gli italiani e quanti gli stranieri, ignoriamo quali siano le loro aspettative, e quali le ragioni di chi nei musei (o nelle biblioteche) non entra e non intende entrare.
Fine della repubblica è anche la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana.
Il sostegno alla fruizione del nostro patrimonio è strumento per il raggiungimento di questo obiettivo.
Più risorse dunque, ma nell’affermare questa esigenza occorre individuare strumenti di programmazione che aiutino a spendere meglio e a evitare dispersione, cominciando ad esempio dalla riorganizzazione dei diversi rivoli di finanziamenti straordinari, troppo spesso sprecati per ragioni clientelari.
Si tratta di cifre di tutto rispetto che sfuggono ad una gestione di spesa interamente programmabile nei tempi intermedi.
Si prendano ad esempio gli interventi finanziati dalla giocata aggiuntiva del Lotto (353 milioni di euro, secondo la programmazione 2007-2009) oppure i rilevanti fondi dell’8 per mille: per il 2010, dei 144 milioni di euro complessivi, il 45 % è destinato alla conservazione dei beni culturali legati al culto cattolico ed un ulteriore 23 per cento è assegnato ai beni culturali civili.
Senza dimenticare le cifre erogate come liberalità per la cultura dai privati (circa 29 milioni di euro).
E naturalmente i fondi Arcus: 200 milioni di euro per il triennio 2010 – 2012.
A questa importante massa di finanziamenti corrisponde un numero inverosimile di interventi, cui si associa l’eterogeneità degli obiettivi e la frequente assenza di correlazione con le finalità pubbliche e con la programmazione ordinaria del MiBAC. A questo fa fronte l’assenza di una seria politica di monitoraggio della spesa culturale (pubblica e privata) in grado di quantificare il volume e verificare la qualità e l’efficacia degli investimenti per la realizzazione della missione pubblica.
Ma sul tema complesso e difficile delle risorse straordinarie, pubbliche e private, torneremo a discutere in un convegno dedicato, che svolgeremo nei prossimi mesi a Milano, coinvolgendo i protagonisti, pubblici e privati (a cominciare dalle fondazioni bancarie).
Il nostro obiettivo è quello di costruire un modello in cui le risorse siano, il più possibile, al servizio di piani nazionali di intervento programmati e selezionati a seconda delle reali esigenze di tutela e di crescita della fruizione e non in ragione di esigenze clientelari o di campanile.
Anche per questo va ripensata e riconsiderata la funzione del Consiglio Superiore dei beni culturali che deve ritrovare la sua indipendenza di giudizio, riconquistare la sua indipendenza dalle istanze di indirizzo politico, acquisire funzioni di programmazione e pianificazione degli interventi.
Un discorso a parte merita Arcus, la spa pubblica che a 7 anni dalla sua nascita, non ha ancora mostrato di saper adottare linee di gestione eque, che rispondano a criteri di imparzialità e trasparenza, oltre che, naturalmente, alle finalità di vantaggio collettivo.
Arcus, al contrario, ha funzionato da argent de poche per i diversi ministri coinvolti che (come ha segnalato più volte la stessa Corte dei Conti) hanno potuto distribuire quel denaro senza alcun controllo e al di fuori di ogni pianificazione.
Alla luce di ciò, crediamo che i finanziamenti a disposizione di Arcus debbano tornare nella piena disponibilità della programmazione degli uffici del Mibac e che per i prossimi anni quei finanziamenti debbano essere interamente dedicati alla rimessa in pristino dei beni culturali e al rilancio del cinema e dello spettacolo de L’Aquila.
Ma occorre anche fare di più per attrarre nel settore della cultura nuove risorse private.
La vicenda del bando per il restauro del Colosseo andato sostanzialmente deserto dimostra che per promuovere mecenatismo è necessario ripensare e armonizzare per l’intero settore culturale norme di incentivazione fiscale.
E forse sarebbe opportuno che il ministero facesse chiarezza sui dettagli dell’affidamento diretto a Della Valle, così da fugare ogni dubbio e preoccupazione su una operazione che può essere straordinariamente importante, ma che ha in sé anche alcuni rischi evidenti.
Attrarre forme di mecenatismo è dunque fondamentale, ma richiede che siano fissati bene i paletti affinché il sostegno privato non significhi privatizzazione di fatto di pezzi del nostro patrimonio.
La tendenza del governo, ma purtroppo non solo del governo, a evocare sempre nuovi bizantini strumenti di governance, come ad esempio è avvenuto con la annunciata e poi fortunatamente abbandonata fondazione per Pompei, è la dimostrazione della fondatezza di queste preoccupazioni.
E le modalità con cui si è agito in altri ambiti della cultura, penso ad esempio al primo regolamento appena emanato sulle fondazioni lirico sinfoniche, rafforzano l’esigenza di pensare un modello diverso: l’indispensabile necessità di costruire strumenti di gestione efficaci per i siti più carismatici, non può prescindere da un ripensamento armonico del sistema di tutela e di gestione, su cui mi soffermerò più avanti.
Dovendo però affrontare un’emergenza, mi sembra di poter dire che la proposta del governo su Pompei, avanzata in sede di conversione del mille proroghe accogliendo molto delle nostre proposte è, per quel sito, un punto di mediazione accettabile.
In questa legislatura managerialismo e redditività dei beni sono dunque divenute le parole d’ordine che hanno consentito nomine incredibili, come quella del dottor Resca e pericolose invasioni di campo (protezione civile).
Lo stato di rachitismo in cui il taglio delle risorse e degli organici, lo stress di 4 riforme in una decina d’anni anni e la mancanza di coordinamento tra crescita e diversificazione delle funzioni in capo agli uffici e reclutamento di nuove ed ulteriori professionalità (ben presenti nel mercato) hanno ridotto il mibac, sono state il cavallo di troia con cui si è giustificato tutto e consentito l’ingresso di meccanismi di gestione gelatinosa a via del collegio romano.
Poco a poco, atto dopo atto, il ministero ha subito una vera e propria mutazione genetica.
Dalle ordinanze di protezione civile che consentivano la deroga ai principi basilari del codice, come è avvenuto per Roma, ai commissariamenti delle soprintendenze principali: scelte discutibili che hanno portato scarsa trasparenza; le procedure di evidenza pubblica sono divenute un optional, la professionalità e l’oggettività nelle decisioni una rarità.
E’ stata radicalmente sovvertita la gerarchia delle priorità facendo scempio del corpo stremato del ministero.
E’ in questo ambito che va inquadrata la vicenda di Pompei.
La voglio ricordare solo perché ancora in questi giorni il ministro Bondi si è detto “umanamente” colpito e addolorato dalla violenza delle nostre accuse, al punto da annunciare non solo le dimissioni da ministro, ma la rinuncia più generale a un posto di primo piano nella politica.
Ci voglio tornare nella consapevolezza che Pompei è solo la punta di un iceberg.
Le nostre città, i nostri territori raccontano una storia di abbandono e incuria che, con sempre minori risorse umane e finanziarie, le strutture tecniche preposte alla tutela cercano di contrastare: il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione non sono oggi al sicuro e giorno dopo giorno pezzi di storia si sgretolano sotto il peso del tempo.
A Pompei è stato mandato un commissario dal governo.
Quel commissario ha speso una enorme quantità di risorse, preferendo alla tutela necessaria opere di cosiddetta valorizzazione.
Nel farlo ha umiliato e maltrattato un sito delicatissimo con tecniche invasive e brutali. Per mesi abbiamo chiesto che lo scempio fosse fermato. E in quei mesi ripetuti eventi, crolli parziali più o meno gravi, avevano segnalato i rischi.
Di fronte alle denunce, con impudenza il ministro rispose magnificando il lavoro del commissario.
La conferenza stampa organizzata per rispondere alle critiche sulla gestione commissariale avanzate da un grande quotidiano, resta una delle pagine più nere della storia del ministero, e davvero non fa onore a chi vi partecipò. E non fu purtroppo solo il ministro.
Poi è giunto il crollo della domus a confermare le nostre preoccupazioni.
Questa grave catena di errori ha avuto inizio con la scelta di inviare a Pompei un commissario, e di scegliere come commissario un dirigente della protezione civile, lasciando contestualmente instabile la direzione della soprintendenza.
Un atto straordinario che ha rotto un equilibrio delicato tra le ragioni della tutela e la fruizione di uno dei siti più carismatici al mondo.
E’ dunque la semplice applicazione di un basilare principio di responsabilità che rende Bondi colpevole, non l’accanimento e la faziosità dell’opposizione.
Ma se è vero che la responsabilità del governo è enorme, bisogna amaramente riconoscere che gli scempi che ho ricordato sono avvenuti senza che vi fosse una adeguata reazione nella comunità scientifica.
In alcuni casi c’è stata addirittura accondiscendenza: penso a quanto in più riprese dichiarato dalla presidenza del consiglio superiore dei beni culturali, organismo ormai ridotto a un ufficio alla diretta collaborazione del ministro di turno.
O a chi ha la grave responsabilità di aver accettato doppi incarichi evidentemente incompatibili.
Si è insomma indebolita quella consapevolezza di sé, quell’orgoglio e quell’autonomia della comunità tecnico-scientifica che in passato avevano reso più forte questo settore (e questo ministero).
Per non parlare del sistema dell’informazione, che per mesi ha omesso di raccontare rischi e denunce, salvo poi accorgersi del problema declinandolo però troppo spesso con un’inaccettabile generalizzazione dal vago e acre sapore antipolitico.
Certo, ci sono state importanti e spesso isolate grida di dolore, non ultima la coraggiosa lettera dei sovrintendenti.
E c’è il quotidiano lavoro di tante persone che, dentro e fuori il ministero, cercano di fare seriamente il proprio mestiere nonostante un governo spesso ostile o, nella migliore delle ipotesi, lontano.
Sono segni di speranza, intorno ai quali vogliamo provare a ricostruire un rapporto e un ragionamento condiviso che dia un orizzonte più certo ai nostri beni culturali.
Per farlo è necessario partire dall’architettura istituzionale.
Da più parti, per provocazione, per frustrazione o per convinzione, si teorizza la necessità del superamento del ministero dei beni culturali, come perno centrale di governance del settore.
Noi non crediamo sia questa la soluzione.
Ma è evidente che così com’è il ministero non regge. La mutazione genetica di questi anni ne ha accresciuto a dismisura la struttura centrale mentre deperiva quella periferica, trasformandolo in un mostro macrocefalo.
In questi anni nessuna politica è stata attuata per frenare l’emorragia di personale tecnico scientifico provocata dal blocco delle assunzioni nella P.A.
Oggi l’amministrazione non è in grado di coprire stabilmente nemmeno i ruoli di soprintendente, mentre nelle piante organiche del ministero mancano quasi completamente figure professionali innovative, che pur si trovano sul mercato del lavoro.
Una situazione insostenibile che peraltro rischia di essere affrontata nel modo peggiore.
Una delle soluzioni escogitate dal Governo sembra essere la nuova Ales spa una società pubblica che vive delle risorse sottratte al Mibac (12 milioni di euro per il 2011), che rifornisce di personale a tempo determinato lo stesso ministero che, però, ha subito due successive riduzioni dell’organico ciascuna del 10 per cento.
Ales potrà valersi di lavoratori socialmente utili, mentre nulla è previsto rispetto agli idonei del concorso dello scorso 2008.
Allo stesso modo non è dato sapere quali saranno (ammesso che siano previsti) i criteri per il reclutamento del personale necessario all’espletamento dei 24 progetti previsti nel contratto tra Ales e Mibac.
Tra gli altri progetti previsti, vanno segnalati quelli relativi allo sportello polifunzionale di servizi per la tutela e valorizzazione e al centro servizi amministrativi, i cui contenuti sono oltremodo vaghi, ma che mettono in campo funzioni e mansioni espletate di norma da personale assunto per concorso pubblico (personale tecnico scientifico e personale amministrativo).
Ferme restando le premesse date, e la indispensabile necessità di garantire l’occupazione e la stabilizzazione dei precari, Ales non può essere trasformata in una sorta di agenzia interinale del Mibac, uno strumento funzionale alla precarizzazione e alla dequalificazione del settore statale della tutela del patrimonio culturale.
Non è certo questa la strada per risolvere i problemi di organico del ministero: c’è bisogno piuttosto di invertire la rotta, snellendo l’apparato centrale e ridando fiato alle strutture periferiche e territoriali e garantendo reale autonomia alle funzioni tecnico scientifiche, storicamente il fiore all’occhiello del ministero.
Valorizzare le competenze esistenti, inserire nuove professionalità, accompagnare il necessario ricambio generazionale sono premesse indispensabili senza le quali è impensabile immaginare un futuro per il ministero.
Occorre ripensare la governance dunque, uscendo definitivamente dalla stanca e ormai logora contrapposizione tra centralismo e decentramento.
Affinché il Mibac – e dunque lo Stato – possa ottemperare alle funzioni attribuitegli dalla Costituzione è indispensabile attivare sinergie tra tutti i livelli di governo e determinare strategie di intervento condivise dallo Stato, dalle regioni, dalle province e dai comuni.
In questo senso è anche essenziale ripensare il ruolo delle regioni stabilendo la possibilità di attribuire loro maggiori funzioni e compiti purché dispongano delle risorse e degli strumenti necessari al rispetto di standard di tutela predeterminati (dallo Stato), ferme restando le funzioni di surroga e di sostituzione da parte dello Stato in caso di inadempienza o inadeguatezza.
Ciò permetterà una stretta sinergia tra l’opera degli enti regionali e l’attività delle soprintendenze e degli uffici periferici, finalmente dotati di piena autonomia scientifica ed amministrativa e, eventualmente, anche di autonomia finanziaria e di bilancio.
La soluzione va cercata, crediamo, in un sistema concorde, plurimo, lealmente collaborativo in cui tutti i livelli di governo siano egualmente vincolati al rigido rispetto di regole certe, stabili e imperative in tema di formazione e reclutamento del personale, autonomia degli apparati tecnici, sistemi di finanziamento, rapporto con i privati, modelli di gestione e criteri di efficacia ed efficienza degli interventi.
Al centro di questo sistema e delle politiche pubbliche, da chiunque attuate, dovranno tornare ad esserci i beni culturali, la loro funzione sociale e l’interesse nazionale superando la fase della mercificazione e della subalternità della cultura agli interessi economici.
In questo senso, i beni culturali pubblici, non potranno essere fatti oggetto di trasferimenti (tra soggetti pubblici o verso soggetti privati) se da essi non discendano utilità culturali per la collettività, e lo stesso si dica per il loro utilizzo che può e deve essere finalizzato unicamente a scopi culturali.
Non basta a nostro parere che vi siano, come prevede la legge, semplici progetti di valorizzazione: è piuttosto necessario che i progetti siano sottoposti al vaglio degli uffici del Mibac; è necessario che sia precluso ogni mutamento di destinazione d’uso dei beni; è soprattutto indispensabile che i beni culturali non diventino merce di scambio per i comuni affamati dai tagli.
Senza dimenticare che il federalismo concepito da questo governo non prevede che la cultura sia né tra i livelli essenziali delle prestazioni (LEP) delle regioni né tra le funzioni fondamentali degli enti locali: il che significa, semplicemente, che il finanziamento della cultura da parte delle regioni e degli enti territoriali dipenderà dalla eventuale disponibilità di risorse smettendo di essere un dovere per diventare un’eventualità, un optional.
Il dibattito sul federalismo, dunque, non può trascurare che il patrimonio culturale è nazionale e quindi, solo un’istanza nazionale, super partes, può essere deputata alla dichiarazione di interesse culturale.
Se, infatti, l’interesse è nazionale, non è pensabile che esso sia configurato e limitato dagli interessi (pur legittimi) delle istanze locali alle quali deve essere attribuita, invece, una larga facoltà di proposta.
Inoltre, anche se è vero che l’affaticamento del Mibac dipende anche dal fuoco di fila delle riforme della sua struttura e della sua organizzazione, tuttavia non c’è dubbio che una serie di aggiustamenti siano indispensabili per migliorarne la funzionalità e l’efficienza.
Abbiamo già detto del Consiglio Nazionale. Ma non c’è dubbio che sia improcrastinabile la concessione di ampi ambiti di autonomia alle soprintendenze, ai musei singoli o in rete restituendo alle soprintendenze funzioni e compiti.
Non più uffici periferici, dunque, ma veri e propri organismi in grado di esercitare la tutela e al contempo di funzionare come veri e propri centri di elaborazione e distribuzione culturale, di connettere i diversi livelli di governo e le realtà che nei territori fanno ricerca.
Alla luce di ciò va rivista, profondamente rivista, la funzione delle direzioni regionali che potrebbero eventualmente assumere funzioni di coordinamento e di controllo e vigilanza sul territorio oltre ad esercitare, eventualmente, funzioni di surroga in caso di inadempienza delle funzioni amministrative da parte dei diversi livelli di governo del territorio.
Non va dimenticato che il paesaggio è già cogestito da stato, regioni ed enti territoriali senza che, tuttavia, esistano luoghi efficaci ed efficienti di coordinamento o poteri statali di sostituzione in caso di mancato o insufficiente intervento da parte delle regioni.
Al tema del paesaggio dedicheremo nei prossimi mesi una giornata di riflessione simile a questa.
Troppo spesso esclusi dal dibattito sono gli archivi e le biblioteche che riescono a guadagnarsi un posto nei media solo quando sono ad immediato rischio di chiusura.
Eppure archivi e biblioteche in Italia rappresentano una delle punte di diamante dell’innovazione nel settore del patrimonio culturale.
Essi avevano creato le premesse per diventare veri e propri luoghi di diffusione e produzione culturale ma il salto qualitativo è stato rallentato dai tagli di finanziamenti e dalla ormai tradizionale carenza di personale che costringe a limitare la loro funzionalità.
Ma la crisi di risorse colpisce anche le innumerevoli biblioteche di enti locali su tutto il territorio nazionale.
Queste ultime, veri e propri presidi culturali sul territorio, svolgono tra l’altro una fondamentale azione di integrazione verso gli immigrati e verso le fasce sociali più deboli e una funzione di avvicinamento alla lettura e alla conoscenza.
Gli archivi vivono difficoltà simili che si ripercuotono però più su quelle attività di ricerca (non solo sulla ricerca umanistica sia chiaro) che dovrebbero essere al centro della ripresa del nostro paese.
Una parola va spesa anche per gli istituti e le fondazioni culturali private che svolgono un’azione di affiancamento e talvolta di surroga dell’attività pubblica e che hanno visto prosciugare i fondi loro destinati dalle finanziarie.
La conseguenza è anche in questo caso, il taglio netto della quantità e talvolta della qualità della loro attività sui territori: convegni, corsi, borse di studio per studiosi e studenti, pubblicazioni di eccellenza vanno diradandosi.
Archivi e biblioteche che riescono ancora con fatica e sacrifici a rimanere aperti al pubblico rischiano di essere sottratti alla fruizione dei cittadini. La recessione culturale è dietro l’angolo.
Rimettere al centro i nostri beni culturali dunque per dargli un futuro, come vuole il titolo di questa nostra giornata.
Ma affinché quanto detto non sia solo e semplicemente una petizione di principio, abbiamo il dovere una volta per tutte di chiarire la questione delle professionalità abilitate ad operare sul patrimonio.
La questione è nota, ne discutiamo da decenni, e non riguarda esclusivamente il tema del riconoscimento professionale, sul quale dirò successivamente.
E’ necessario intervenire anche a monte del problema, dando finalmente un ordine funzionale alla babele formativa per gli operatori dei beni culturali.
Istituti centrali, corsi universitari, scuole regionali, ma anche semplice esperienza professionale acquisita in anni di lavoro sul campo: è assolutamente necessario mettere in connessione e non in competizione le diverse agenzie formative, in modo da evitare il protrarsi di una situazione confusa che finisce per penalizzare chi lavora.
E’ una questione resa ancor più complessa dalla progressiva articolazione e specializzazione dei corsi universitari, con il paradosso di una enorme offerta formativa, fortemente disomogenea e che non risponde alle esigenze di professionalizzazione richieste dal mondo del lavoro.
E che spesso, nella sua non governata complessità, produce lacerazioni e conflitti tra i più deboli.
Non ha davvero più alcun senso declinare la questione partendo dalla necessità di gerarchizzare, magari a tutto vantaggio di presunte eccellenze; né possiamo attardarci oltre in un dibattito tra i sostenitori di una formazione teorica e quelli che rivendicano un aumento delle competenze tecniche.
Nè possiamo negare che in questo settore la riforma del 3+2 non sia stata esattamente benefica e non c’è dubbio che quando si presenterà l’occasione di rimettere mano in modo serio all’università italiana, ammesso e non concesso che sopravviva alla Gelmini, occorrerà riflettere bene anche sul nostro settore.
Ma oggi dobbiamo partire da un dato certo, stabilendo quale sia il titolo necessario a qualificare il professionista dei beni culturali.
Noi siamo convinti che debba essere la laurea (quadriennale o specialistica).
Ma nel dirlo siamo assolutamente consapevoli della necessità che si rimetta mano alla definizione di quei corsi di laurea, in modo da renderli effettivamente sufficienti a una professionalizzazione di base.
Ridefinire i percorsi della formazione accademica dunque, come primo passo.
Poi rendere quei percorsi effettivamente abilitanti, recependo questa impostazione prima di tutto nella pubblica amministrazione.
E infine rendere quell’abilitazione necessaria ad operare sul patrimonio.
Certo, occorre contestualmente ridefinire la formazione superiore e di eccellenza, e anche costruire i legami organici con gli strumenti formativi extra-accademici.
Ma se non si parte da qui sarà impossibile mettere ordine nell’intero sistema.
Per questo chiediamo al governo di promuovere una conferenza interministeriale con le regioni, le parti sociali, le associazioni di categoria e quelle professionali che affronti approfonditamente la questione.
E per questo però chiediamo al mondo accademico di fare uno sforzo per cercare di immaginare come rendere quei cinque anni di insegnamento realmente utili alla professionalizzazione.
Oggi così non è, ce lo dice l’esperienza, ce lo dicono i dati.
Secondo il Rapporto di Alma Laurea sugli storici dell’arte, rispetto al 2001 il tasso di occupazione dei laureati è in calo dello 0,5 per cento mentre è in aumento di 3 punti percentuali il tasso di disoccupazione.
Tra 2001 e 2008 la quota dei laureati occupati diminuisce di 6 punti percentuali. Allo stesso modo è in costante calo il guadagno mensile netto a cinque anni dalla laurea.
I laureati post riforma sembrano migliorare le loro opportunità di essere occupati ad un anno dalla laurea, anche se gli specialisti sembrano svantaggiati rispetto ai laureati di primo livello.
Quello che il mercato offre ai nostri laureati di primo livello è una qualche forma di occupazione instabile: solo il 27 per cento ha un lavoro stabile (contro il 43 per cento dei laureati in genere e il 28 per cento del gruppo letterario). E cresce la quota di coloro che lavorano senza contratto. Guadagnano oltre il 25 per cento meno dei loro “pari grado”.
E non va affatto meglio ai laureati specialistici.
Se prima o poi un lavoro arriva, ciò che non giunge è la stabilità e i guadagni, forse anche perché i nostri giovani specialisti vivono una sorta di bulimia formativa tale che continuano a cercare corsi, master, dottorati, stage, per migliorare il loro livello formativo.
Il che rende la loro condizione lavorativa e di vita negli anni successivi alla laurea specialistica particolarmente complessa: una forte instabilità occupazionale e guadagni mensili particolarmente depressi.
Vorrei osservare che se da un lato una formazione sempre in divenire ed in crescita è un dato positivo, nasce però il timore che il mancato riconoscimento delle professionalità dei beni culturali, e l’assenza di una definizione dei livelli minimi per accedere alla formazione, abbiano fatto cadere molti dei nostri laureati nel ben noto paradosso di Achille e della tartaruga: dove Achille sono i laureati e la tartaruga (lenta ma irraggiungibile) è l’occupazione.
E le dichiarazioni del dottor Resca secondo cui mancherebbero le professionalità adatte alla cura del patrimonio culturale, non rende la situazione più semplice e apre la strada a fenomeni sempre più diffusi di sotto occupazione e di dequalificazione.
La politica deve naturalmente fare la sua parte, e costruire le condizioni per cui quelle professionalità vengano effettivamente riconosciute.
Noi siamo convinti che la via maestra sia la correzione del codice, per questo abbiamo ormai da quasi tre anni presentato una proposta di legge, prima firmataria Marianna Madia, che sanerebbe l’intollerabile vulnus della mancata citazione nel testo base sui beni culturali dei professionisti che operano sul patrimonio.
Quella proposta può naturalmente essere aggiornata, favorendo ad esempio l’inserimento delle nuove professioni legate all’innovazione tecnologica (ad esempio gli scienziati della diagnostica).
A fianco a questo occorre portare a compimento la più generale riforma delle professioni, su cui credo interverrà successivamente Stefano Fassina.
Un ragionamento a parte, come sempre, meritano i restauratori.
Vittime di una sovrapposizione di norme, di un certo grado di confusione, della intempestività, incompletezza e discontinuità nella normazione per qualificare gli addetti, della macchinosità dei criteri per accedere alla qualificazione, si trovano ora in una drammatica condizione di stallo (che coinvolge anche i lavori di restauro).
Il rischio concreto, stante l’attuale situazione e l’incapacità del Mibac di gestire i procedimenti di riconoscimento, è la dispersione di uno straordinario capitale di competenze e di professionalità che rappresenta una delle eccellenze italiane nel mondo, ma anche di escludere dal mercato del lavoro migliaia di professionisti.
Ivi compresi i restauratori interni al ministero, coloro che hanno superato un concorso indetto dalla pubblica amministrazione, hanno svolto le funzioni di restaurato per decenni, hanno insegnato nelle scuole statali di restauro, e che si trovano nella paradossale condizione di dover dimostrare alla stessa amministrazione pubblica di essere restauratori.
Non una sanatoria è necessaria, non l’ope legis, ma un procedimento efficace di riconoscimento di una qualifica professionale (ben distinta dall’attribuzione della qualifica OS2 in base al decreto ministeriale n. 420 del 2001 – riguardante requisiti di ‘impresa’ per le gare d’appalto).
E’ una materia complessa che va affrontata con spirito concertativo.
In questi mesi, grazia al lavoro paziente di Rita Borioni, abbiamo incontrato riservatamente in diverse occasioni i rappresentanti delle molte associazioni dei restauratori.
Sulla base di questo lavoro presenteremo una proposta di modifica del 182, provando a costruire un consenso più ampio, coinvolgendo la maggioranza.
Resta però un’incredibile dimostrazione dello spirito del tempo che a riunire i restauratori per affrontare un problema di governo sia stato il maggior partito dell’opposizione e non il ministro preposto.
Come noto, il tema del mancato riconoscimento delle professioni ha portato con sé in questi anni una fortissima precarizzazione del lavoro nei beni culturali.
Una piaga che ovviamente non riguarda solo questo settore e che può essere corretta solo con riforme complessive.
Il partito democratico ha presentato su questi temi molte proposte sulle quali non mi soffermerò perché sono certo che lo farà meglio di me Stefano Fassina a conclusione della sessione mattutina.
Ma non c’è dubbio che il nostro settore ha delle peculiarità che rendono indispensabili alcuni interventi specifici.
E’ necessario ad esempio introdurre norme sulla protezione della proprietà intellettuale per gli scavi archeologici e i lavori di restauro e catalogazione.
Oggi, nella maggior parte dei casi, in particolare gli archeologi impegnati in scavi commissionati dalle Soprintendenze trovano nei contratti una clausola sulla riserva di pubblicazione che vieta loro di diffondere i risultati dello scavo oggetto del contratto senza l’autorizzazione esplicita e scritta della soprintendenza committente.
Stessa sorte è riservata a chi è impegnato da esterno nella catalogazione.
Riteniamo invece sia giusto, oltreché necessario ai fini dei curricula professionali degli operatori, che i risultati del lavoro di ricerca dei professionisti dei beni culturali tornino nella piena disponibilità degli studiosi.
C’è poi il tema, molto sentito, dell’elenco dei professionisti abilitati alla verifica preventiva dell’interesse archeologico.
Di archeologia preventiva si è molto discusso in questi mesi: credo sia opportuno ribadire che si tratta di una norma di tutela, e non della scorciatoia attraverso cui risolvere problemi assai complessi, come quello del riconoscimento professionale.
Ovviamente non può nemmeno essere lo strumento attraverso cui i dipartimenti universitari reintegrano le risorse sottratte dai tagli né tantomeno una quota di mercato da riservare a quei professionisti che soffrono per la non concorrenzialità del mercato stesso.
Problemi seri che esistono, ma che vanno risolti per la via maestra, che è quella che stiamo cercando di disegnare insieme.
E’ una norma di tutela dunque. E come tale va considerata.
Può essere anche un importante volano occupazionale, e può essere utile ad attrarre nuove risorse nel settore, divenendo un pezzo di una politica industriale.
Perché ciò sia possibile però occorrono alcuni correttivi.
Innanzitutto, organicamente a quanto detto in precedenza, deve essere riconosciuta la laurea quadriennale o specialistica come titolo sufficiente per esercitare l’attività di verifica preventiva.
Deve inoltre essere garantita pari opportunità di accesso per l’iscrizione nell’elenco a tutti i soggetti in grado di certificare la propria qualificazione.
Infine deve essere regolamentata la partecipazione dei dipartimenti universitari sul mercato dell’archeologia preventiva per evitare il rischio dello snaturamento della loro missione istituzionale e la possibilità che essi abbiano vantaggi competitivi nel mercato.
Non mi sfugge la delicatezza di questo passaggio, né si può negare che oggi i dipartimenti sono spinti a “essere azienda” non solo dalla scarsezza dei finanziamenti, ma dalla stessa riforma dell’università.
Ma non crediamo che questa sia una situazione sana, tanto più in un settore in cui è necessario ricreare spazi di occupazione di qualità per dare uno sbocco vero proprio a chi da quelle università esce.
Occorre poi fare una verifica seria sullo stato di avanzamento del processo di liberalizzazione avviato da Bersani nell’ultimo governo Prodi per quanto riguarda le guide turistiche.
La norma che emanammo, su richiesta delle associazioni professionali di archeologi e storici dell’arte, prevedeva l’equiparazione del titolo di studio al patentino, fatta salva la verifica linguistica e di conoscenza del territorio attraverso un esame non selettivo.
La norma avrebbe dovuto essere recepita dalle regioni e applicata dalle province.
L’esperienza di questi anni ci dice che non sempre le cose sono andate così ed è davvero importante invece che si porti a compimento quel processo, così da consentire un ulteriore sbocco professionale ai laureati dei beni culturali, scardinando meccanismi di sfruttamento e di lavoro non qualificato che purtroppo sono ancora molto diffusi.
Insomma, ancora oggi la situazione lavorativa di un professionista dei beni culturali è difficile, indefinita, incerta.
Le responsabilità di questo stato di cose sono molte: ne ha la politica che ha troppo a lungo ritardato lo scioglimento di alcuni nodi; ne ha la pubblica amministrazione che troppo spesso alimenta lo sfruttamento non fissando regole certe, tariffari omogenei, o fingendo di non vedere come i capitolati delle gare diventino vere e proprie trappole per i lavoratori.
Ne ha anche il sindacato, che da fatica a trovare le forme di rappresentanza e tutela di professionalità così diverse. Ancora oggi un archeologo seguendo la diversità degli incarichi, dovrebbe cambiare categoria di riferimento almeno un paio di volte a settimana.
Ne hanno infine gli stessi lavoratori, che faticano a vivere una dimensione di impegno collettivo.
C’è bisogno di un salto di qualità complessivo, nella consapevolezza prima che nell’impegno. Noi cercheremo di fare la nostra parte.
Ma la già abitualmente difficile condizione dei lavoratori si è notevolmente complicata all’impatto con la crisi.
Abbiamo in più di un’occasione chiesto al governo di costruire un provvedimento straordinario per sostenere i precari della cultura, ma senza ottenere risposta.
L’effetto del non intervento è stato l’abbandono di migliaia di persone nell’incertezza e nella precarietà.
In questi anni gli abbandoni della professione sono stati altissimi, e anche chi è riuscito ad andare avanti lo ha fatto in condizioni difficilissime.
Ma la crisi non ha colpito solo i lavoratori.
Perché nel settore dei beni culturali, oltre ai privati di cui sempre si invoca il salvifico intervento, ci sono quei privati, quelle imprese che quotidianamente operano sul nostro patrimonio e che sono attrici importanti della tutela, della gestione e della valorizzazione.
Le operazione necessarie a recuperare, restaurare, spiegare il nostro patrimonio sono svolte per una parte consistente proprio da queste imprese: offrire loro un sistema di regole chiaro e politiche industriali efficaci è dunque indispensabile anche a garantire la qualità delle attività svolte.
La crisi ha prodotto un drammatico restringimento degli stanziamenti pubblici diretti e indiretti e quindi un conseguente restringimento delle dimensioni del mercato.
La scarsità delle commesse ha amplificato i problemi storici e strutturali delle imprese del settore, rendendo ancor più urgente un intervento.
Ma in una fase così delicata risulta non più rinviabile lo scioglimento del nodo del rapporto tra soggetti pubblici e mercato.
La vicenda di Ales, oltre a quanto detto in precedenza, preoccupa anche da questo punto di vista.
Creare monopoli pubblici in un settore caratterizzato da una forte vivacità imprenditoriale non appare davvero la miglior strada da imboccare.
Sarebbe piuttosto opportuno agire in senso opposto, immaginando una exit strategy anche per quelle realtà municipali che sono cresciute a dismisura in questi anni, divenendo un vero e proprio macigno sul possibile sviluppo di una imprenditoria sana nel settore.
A ciò si aggiunge il problema della trasparenza nell’aggiudicazione degli affidamenti diretti, che per la natura di questo settore, sono una parte davvero consistente del monte dei lavori.
Non c’è dubbio che la specificità e la delicatezza dell’oggetto dei lavori, ovvero il nostro patrimonio, necessiti di una cura e attenzione straordinaria.
Ma questa deve essere garantita da regole certe, da criteri di qualificazione delle imprese stringenti, da requisiti professionali indispensabili per l’autorizzazione ad operare e dall’effettiva efficienza degli strumenti di vigilanza. Non può essere l’arbitrarietà delle scelte di chi affida l’unico metro di giudizio.
Più in generale è abbastanza evidente che le norme del codice degli appalti stanno piuttosto strette a un settore come i beni culturali in un paese come l’Italia.
Per questo stiamo valutando con il gruppo parlamentare europeo se vi siano le condizioni per avanzare la richiesta di una sorta di eccezione culturale per questo settore che, in Italia vive una condizione assolutamente unica per dimensione, delicatezza e qualità.
Non ultima, la vicenda dei commissariamenti è un ulteriore elemento di distorsione del mercato e della concorrenza a causa dell’uso tanto diffuso quanto ingiustificato di derogare alle procedure di evidenza pubblica.
Ripristinare dunque le condizioni di una concorrenza leale è la premessa indispensabile per pensare un pacchetto di politiche industriali.
Ma la crisi ha fatto emergere con chiarezza molti limiti strutturali delle imprese del settore, a cominciare dalla piccolissima dimensione della gran parte di esse che le rende fragilissime finanziariamente.
L’allungarsi dei tempi dei pagamenti della pubblica amministrazione, combinato con la riduzione delle commesse e con l’arbitrarietà delle scelte sta portando al collasso l’intero sistema.
Occorre da subito che il governo metta in atto misure di accorciamento dei tempi nei pagamenti e strumenti di sostegno e garanzia finanziaria per gli operatori del settore.
Ma al di là della gestione dell’emergenza occorre immaginare politiche di incentivazione della crescita della dimensione d’impresa attraverso il raggruppamento di realtà minori, tenendo conto che spesso il “nanismo” di queste imprese è figlio della loro stessa natura: si tratta di imprese che nascono per l’incontro di competenze molto specifiche, molto diverse e spesso fortemente complementari dal punto di vista tecnico-scientifico, ma totalmente prive di capacità e conoscenze imprenditoriali. Compito di una politica pubblica è anche quello di trovare le forme per facilitare la capacità organizzativa delle imprese, aiutandole a crescere e ad aggregarsi senza per questo perdere le proprie specificità, che spesso ne rappresentano la forza.
Ma il mercato dei lavori e dei servizi pubblici per la cultura, quand’anche dovesse ripartire rapidamente, genererà attività per le imprese solo in qualche anno.
Il periodo di sostanziale vuoto ha messo in difficoltà anche le poche medie imprese del settore, che faticano a programmare il proprio portafoglio lavori.
L’unica soluzione sul breve periodo è l’internazionalizzazione, che deve essere adeguatamente incentivata e sostenuta.
Quello dell’aggressione dei mercati esteri è uno dei terreni sui quali sperimentare un rapporto leale e sano tra università e imprese, che troppo spesso in un sistema confuso come il nostro vengono a trovarsi in una innaturale condizione di concorrenza.
Il prestigio delle nostre università e dei nostri centri d’eccellenza può invece essere un’ottima chiave d’ingresso per le imprese in nuovi paesi.
E d’altra parte le imprese più solide non potranno che confrontarsi oltre che su nuovi mercati, sull’innovazione di processo e di prodotto; ma sono davvero poche quelle che hanno le dimensione per attivare ricerca e comprare innovazione.
Occorre costruire strumenti che aiutino l’individuazione e attivino la domanda di innovazione e che ne razionalizzino l’offerta.
Insomma, c’è bisogno di una vera e propria politica industriale anche per questo settore.
Anzi, ancor più per questo settore, le cui imprese per il semplice fatto di essere italiane, se sostenute, potrebbero godere di un vantaggio competitivo unico.
Naturalmente a patto che siano imprese vere: per questo occorre ritoccare il sistema di qualificazione, premiando ad esempio la stabilità di personale specializzato in organico.
Mi scuserete per la lunghezza di questa relazione, che si sta finalmente concludendo, ma abbiamo voluto mettere sul tavolo della discussione molti argomenti per sfruttare al meglio questa occasione.
Altre ne seguiranno, perché siamo convinti che prima di tutto in una fase così delicata per il mondo della cultura sia importante scacciare la sensazione che non ci sia più nulla da fare.
E per farlo, per ritrovare il filo di un discorso, per tirare il bandolo e districare la matassa di problemi da troppo tempo aggrovigliati, siamo convinti sia indispensabile ripartire dal confronto, dal dialogo ma anche dalla capacità di fare delle scelte.
Grazie ancora e buon lavoro
www.partitodemocratico.it