Sarebbe sbagliato sottovalutare quello che sta accadendo alle centrali atomiche in Giappone, Paese che 65 anni fa ha già visto in faccia lo spettro dell’olocausto nucleare. Quello di Fukushima è uno dei più gravi incidenti che si ricordino. E non ne attenua la gravità il fatto che non sia stato causato dall’imprudenza umana, come a Chernobyl, né da un’avaria, come a Three Mile Island, ma da un terremoto devastante. Una prova ancora più tremenda di quante questa orgogliosa nazione ha dovuto affrontare nella sua storia, rialzandosi sempre.
C’è stato chi, magari confortato dai 10 mila chilometri di distanza, ha detto che alle nostre future sicurissime centrali non potrà succedere. L’impianto di Fukushima è vecchio. E poi in Italia ci sono siti sicuri al riparo dai terremoti. Tutto vero. Resta il fatto che l’opinione pubblica ha il diritto di sapere che cosa si sta davvero rischiando. Senza reticenze.
Al tempo stesso siamo convinti che non possa essere la comprensibile emotività suscitata da quella tragedia a determinare scelte fondamentali di politica energetica. L’abbiamo già fatto e ne siamo rimasti scottati. Il referendum antinucleare del 1987 passò con una maggioranza schiacciante per l’impressione suscitata da Chernobyl. Nessun partito, eccetto il repubblicano, osò sfidare l’impopolarità.
Promisero che mettendo al bando l’atomo avremmo imboccato la via dell’energia pulita: siamo invece diventati il Paese europeo più inquinante, più dipendente dagli sceicchi e con le bollette più care. Finché, dopo aver riempito le tasche dei petrolieri, ci si è accorti che la Germania produceva 70 volte più energia solare dell’Italia, rimasta penosamente al palo nel campo delle rinnovabili. E per recuperare terreno abbiamo concesso incentivi fin troppo generosi a chi le produceva. Salvo poi chiudere i rubinetti dalla sera alla mattina.
Così la stessa maggioranza che per cinque anni al governo si era ben guardata dall’avviare la pratica (ricordate il ministro Marzano? «Da noi non ci sono le condizioni per riaprire il discorso del nucleare», disse nel maggio 2001) l’ha scoperta priorità nel 2008. Giusto in tempo per le elezioni. Eppure oggi l’Agenzia per la sicurezza non ha ancora una sede e i suoi componenti, ha confessato il presidente Umberto Veronesi, s’incontrano al bar.
Come stupirsi se da vent’anni aspettiamo inutilmente un piano energetico nazionale che dica come alimenteremo fabbriche, treni e frigoriferi nel futuro? Siamo il Paese dei controsensi, del tutto e del niente. Dove ogni decisione importante non viene presa in base a disegni strategici. Bensì sull’onda di un’emozione, di polemiche o interessi particolari. Anche se si tratta di scelte destinate a cambiare la vita dei nostri figli e nipoti.
Il Corriere della Sera 14.03.11