Vediamo l´acqua che brucia e la terra che si liquefa. Lo sanno da sempre i figli giapponesi di Amaterasu, la dea del sole, che la vendetta della Terra disordinata viene dallo stesso mare che li ha creati.
Sono infatti le immagini dell´acqua che divora e che brucia le loro risaie ben ravviate, le loro cittadine precisine, i loro capannoni e serre allineate come soldatini del Tenno, quelle che raccontano meglio la catastrofe giapponese.
Guardate come avanza l´onda lenta e lurida nella piana di Miyagi, la prefettura dove si trova Sendai, trascinando barche e tetti, detriti confusi e irriconoscibili, fiamme in movimento che bruciano sull´acqua, come inghiotte pigramente, senza sforzo, l´ordine impeccabile della campagna e dei quartieri industriali creato in generazioni di sacrifici e fatica. Si lascia alle spalle una distesa grigia e piatta dalle quale spuntano soltanto qualche alberello spoglio e quale scheletro di edifici più robusti ancora in piedi. Un´altra immagine torna subito agli occhi: la Hiroshima dell´agosto 1945.
L´epicentro è stato nell´oceano e contro la spallata dello tsunami – una parola giapponese, come taifun, il tifone, in acque dove ancora oggi spuntano e sprofondano isole vulcaniche come i mostri dei film, non ci sono difese né norme edilizie. Gli uffici della Nhk, la Rai nipponica, sono stati i primi a riprendere e trasmettere le sequenze delle scosse e si vedono monitor di computer, fortunatamente tutti a cristalli liquidi e senza tubi catodici, che crollano in grembo agli impiegati e alle impiegate, mentre i cartelli sospesi ballano frenetici, ma niente davvero crolla nei grandi palazzi, perché i regolamenti e le precauzioni tengono a Tokyo o nel centro di Sendai.
Ma il lunghissimo muro bianco di schiuma che arriva da est, dal Pacifico, e si muove verso i villaggi della costa rotolando su un acqua perfettamente piatta e intimidita dal mostro prima di mangiarsi i paesi, ha l´andatura e l´implacabilità di quelle onde del Mar Rosso che avrebbero coperto i soldati del Faraone all´inseguimento del popolo di Mosè. Ci sono, nelle sequenze che una nazione di videocamere e di fotomaniaci ha girato in grande abbondanza, quello che possiamo soltanto immaginare accadde sotto la diga del Vajont.
Le casette begioline di due, tre piani al massimo, oggi costruite di cemento e mattoni, non più di legno come erano fino alla guerra, sono sollevate e trasportare sopra altre casette, quando l´acqua sfonda la diga sulle colline e si allarga nella piana. Il Giappone da decenni è la nazione con più dighe al mondo, corsi d´acqua deviati e incanalati in argini di cemento, con chiuse costruite da governi ansiosi di regolare un´orografia inquieta e selvatica, che produce puntuali piene e frane nelle stagioni degli uragani e dei tifoni trascinando a valle i mama san e papa san con le loro avare risaie. Ma quando le briglie di cemento armato cedono l´effetto è quello che vediamo nella piena che porta a valle battelli e barchetti, furgoncini e utilitarie, camion e anche quei Suv che s´illudevano di sfidare la rabbia della terra.
Sono tutti i simboli del Giappone moderno quelli che sono sradicati e sommersi come il modernissimo aeroporto di Sendai, gettati o risucchiati come quella barchetta presa nell´immenso maelstrom, il gorgo che la sta inghiottendo come una briciola nel fondo del lavandino, in un fermo immagine che toglie il respiro. Nel nord, i due eterni amici nemici dell´umanità si alleano, scatenando l´esplosione e poi l´incendio di una raffineria che vomita milioni di litri di carburante in fiamme tra le acque che li circondando, anche qui riesumando ricordi di tragedie belliche navali, di grandi unità che affondano colpite nel fuoco del loro carburante che continua ad ardere consumando i marinai che si gettano dal relitto.
Le scene che il grande sisma di Sendai, la città dove la nazionale italiana di Trapattoni andò i ritiro nei Mondiali del 2002, sono in sostanza filmati di una guerra senza guerra, tutti riconducibili a Hiroshima, ai bombardamenti incendiari che divorarono Tokyo per giorni, a quelle invasioni di nemici che si riversavano sulle spiagge dell´Impero come le muraglie dello tsunami ieri, verso rive difese da soldati che sapevano di poter soltanto morire di fronte alla strapotenza dell´avversario. Sapendo che nessuno sarebbe arrivato, nel 1945 come nel 2011 a salvare il soldato Yoshi dall´assalto venuto da male.
Con l´immancabile spettro dell´orrore nucleare che quelle centrali, particolarmente dense nell´area colpita, proiettano fra notizie inquietanti di fughe radioattive e difficoltà di raffreddamento dei reattori e annunci di allarme nucleare.
C´è un onda gonfia che porta sul pelo grappoli di automobili e automezzi chissà perché tutti bianchi, che in Giappone è il colore dei riti funerari, forse parte di una “flotta” aziendale. Galleggiano come insetti morti con le ruote nere all´aria, destinati a scivolare via sulle rapide artificiali create dalle strade e dalle pendenze inghiottite. Si vede un grosso battello fluviale con la prua diritta da vecchio incrociatore, bianco anch´esso, navigare in una perfetta deriva in linea retta. Supera velocissimo tutti i detriti, i camioncini con le zampe all´aria, le barchette più leggere e sbandate, come una nave ammiraglia di una flotta involontariamente suicida filando verso una cascata artificiale che finirà per spezzarlo.
Non si vedono invece, ma ci saranno, le immagini della ricostruzione che avverrà, come avvenne nel grande terremoto del Kanto, la piana di Tokyo, 80 anni or sono, a Hiroshima, oggi una città brutta, ma tornata grande e viva, a Kobe, che nel 1995 ebbe le sopraelevate schiacciate come frittate dal terremoto sopra sei mila morti, ma sappiamo che ci saranno.
Perché la lotta perenne di un popolo disperatamente razionale contro la natura fanaticamente irrazionale che lo circonda è ciò che ha fatto e continuerà a fare il Giappone.
La Repubblica 12.03.11