La giustizia italiana, per poter esser davvero utile ai cittadini, aveva bisogno di tutto. Ma non certo di questa «rivoluzione» celebrata con un evviva dal capo del governo. Quella approvata ieri a Palazzo Chigi non è una «riforma epocale», ma una «contro-riforma incostituzionale». Un manifesto ideologico, che riscrive tredici articoli della Carta del ´48, stravolge i principi che hanno retto le istituzioni della Repubblica, ribalta gli equilibri che hanno garantito il bilanciamento tra i poteri dello Stato.
È vero. Almeno per il momento, nel pacchetto-giustizia licenziato ieri a Palazzo Chigi c´è una rottura significativa con il passato: non contiene norme «ad personam», con le quali il presidente del Consiglio si cuce addosso un salvacondotto personale. Ma non per questo è meno dirompente. Al contrario: questa è una riforma «ad castam», con la quale un´intera classe politica pretende di cucirsi addosso un salvacondotto collettivo. Lo dice lo stesso Berlusconi, una volta tanto sincero, nella conferenza stampa con la quale cerca di spiegare la «filosofia» di questo «punto di svolta», come l´ha chiamato: «Questo cambiamento, se fosse stato introdotto vent´anni fa, avrebbe evitato l´esondazione, l´invasione della magistratura nella politica e quelle situazioni che hanno portato nel corso della storia degli ultimi venti anni a cambiamenti di governo, a un annullamento della classe dirigente nel ´93».
Questa, per ammissione del suo stesso ispiratore, è dunque la «ratio» della riforma. Un complesso di «regole» che avrebbero impedito ai giudici di Mani Pulite di scoprire Tangentopoli. Avrebbero impedito al pool di Milano, sia pure tra alcuni errori e qualche eccesso, di scoprire il malaffare endemico del ceto politico della Prima Repubblica. Avrebbero impedito alle procure di indagare allora sui reati commessi da Berlusconi-imprenditore, e oggi su quelli commessi anche da Berlusconi-premier. Avrebbero impedito ai pubblici ministeri di condurre inchieste «pericolose», da Cosentino a Cuffaro, da Verdini a Tedesco. Questo, a dispetto delle chiacchiere del premier che parla di «un testo organico che non è contro nessuno», è il vero impianto ideologico e psicologico della contro-riforma berlusconiana: una vendetta postuma nei confronti della magistratura.
Tutto, in questo presunto «testo organico», tradisce l´intenzione di una rivincita del potere politico (che viene sovra-ordinato e irrobustito) sul potere giudiziario (che viene ridimensionato e intimidito). L´esercizio obbligatorio dell´azione penale risulta fortemente limitato e ricondotto nell´alveo delle priorità stabilite dal governo (attraverso la legge ordinaria) e dal Guardasigilli (attraverso la sua relazione annuale alle Camere). Il Csm è smembrato e cessa di essere organo di «autogoverno» della magistratura, per diventare organo «sotto il controllo» del governo, attraverso la modifica della proporzione tra membri togati e membri eletti. La polizia giudiziaria è sostanzialmente sottratta al coordinamento delle procure e assegnata alle cure del ministero dell´Interno.
La politica riafferma così il suo «primato» sulla giurisdizione. Non c´è più «check and balance» tra i poteri dello Stato, non c´è più un sistema di garanzie reciproche, come dispone la Costituzione. C´è un potere che sovrasta l´altro. E questo è tutto. Allora, se questo è il senso dell´operazione, non serve che ci sia un altro «scudo processuale» nascosto tra articoli e commi della riforma, per considerarla comunque dannosa e pericolosa.
«Se non ora, quando?», chiede con vaga ironia Alfano, per giustificarne l´urgenza. Il ministro mente sapendo di mentire. Per essere politicamente sostenibile, una riforma costituzionale così vasta si presenta all´inizio della legislatura, discutendola con i magistrati e condividendola con l´opposizione. Non viene approvata in tutta fretta da un governo che cerca disperatamente di galleggiare per un altro anno e mezzo, illustrandola poche ore prima al Capo dello Stato e sbattendola in faccia alle toghe e al Parlamento. Per essere credibile, una riforma «di sistema» così devastante si prepara al riparo dalle contingenze processuali del presidente del Consiglio. Non viene lanciata nel fuoco della battaglia mortale che l´esecutivo sta conducendo contro il giudiziario.
C´è un problema «tecnico», da chiarire una volta per tutte. Nessuno difende «a priori» i magistrati: anche le toghe hanno sbagliato e sbagliano. E nessuno si sogna di difendere lo status quo: il nostro sistema giudiziario fa acqua da molte parti, in termini di efficienza, di rapidità e spesso anche di equità. Ma non è questa la riforma che serve agli italiani, costretti ad aspettare quasi cinque anni per avere una sentenza civile e oltre otto per avere una sentenza penale. In questo pacchetto non c´è nulla che renda più veloci e più «giusti» i processi. Non c´è l´intenzione di aiutare i cittadini. C´è solo la tentazione di punire i magistrati.
C´è un nodo politico, da sciogliere una volta per tutte. Nessuno crede al «ravvedimento» improvviso del Cavaliere. Con una mano offre all´opinione pubblica e al Parlamento un pacchetto-giustizia che, in apparenza, riguarda tutti e non più lui. Ma cosa nasconde nell´altra mano, nessuno lo sa né lo ha capito. Viene ricalendarizzata la legge sul processo breve, si continua a parlare di immunità parlamentare, si ventilano ipotesi di norme sulla prescrizione ridotta per gli incensurati. Su questa zona d´ombra, che si espande ai margini della «riforma epocale», va fatta luce e va chiesta chiarezza. Troppe volte il Cavaliere ci ha abituato ai suoi bluff, ai suoi blitz, ai suoi doppi e tripli giochi.
In questa chiave, davvero si fatica a comprendere il solito dibattito surreale che si sviluppa nell´opposizione, sospesa tra l´«arroccamento» e il «dialogo». Si dice, a sinistra: stavolta non possiamo non andare a vedere le carte. Che significa? Alcune carte, come abbiamo appena detto, sono ancora coperte, e su questo sarà bene sospendere il giudizio e vigilare. Ma altre carte le ha messe ieri sul tavolo il governo. L´opposizione (pre o post-bicameralista che sia) è in grado di dire con franchezza se questa è la riforma della giustizia che serve al Paese oppure no? Ed è in grado di dire se è sensato oppure no un confronto con la maggioranza su questo testo-monstre di revisione costituzionale, che richiederebbe comunque ben quattro letture parlamentari e poi un sicuro referendum confermativo?
Con un po´ di buon senso, e un po´ di onestà intellettuale, non è difficile rispondere a queste domande. La riforma «ad castam», inventata dal governo per far finta di governare, può anche vellicare qualche suggestione «bipartisan». Ma non vedrà mai la luce, perché questo centrodestra non ha più né il tempo né la forza per farla passare. E questo, in fondo, è il suo unico, ma grandissimo «pregio».
La Repubblica 11.03.11