Duecentotrentuno milioni di euro è la cifra che lo Stato italiano intende spendere per cinema, teatro e lirica nell´anno corrente. Lo stanziamento è talmente esiguo da avere spinto la Consulta ministeriale a rifiutarsi di decidere: si può spartire una torta, non si può spartire un mucchio di briciole.
Che arte e cultura possano e debbano vivere solo dei loro incassi è un concetto palesemente truffaldino. Perché senza mecenatismo privato e pubblico nessuna arte, in nessuna epoca, in nessun paese avrebbe mai potuto attecchire e svilupparsi: progettualità, pensiero, creazione, sperimentazione non sono “beni” immediatamente misurabili in termini di rendimento economico. Sarebbe come pretendere che i ricercatori scientifici portassero a incasso, ogni anno, più di quanto hanno speso per ricercare. Morirebbe la ricerca scientifica.
Il bilancio delle arti non è mai calcolabile nel breve periodo. Al botteghino si contano i proventi immediati, ma il prestigio culturale e la crescita intellettuale di un paese, specie di un paese come il nostro che ha tra i suoi pochi punti di eccellenza un patrimonio artistico e culturale unico al mondo, non è un conto che si può fare con la grettezza del contabile. Impoverire il tessuto culturale di una qualsiasi comunità è comunque un atto di cecità. Farlo in un Paese come il nostro è puro sabotaggio, soprattutto contro le nuove generazioni. Al punto che è legittimo sospettare che dietro il fragile sipario della “mancanza di fondi” agisca un animus politico anti-culturale che si concilia perfettamente con il proposito di una trasformazione strutturale della società italiana. Consumatori di pubblicità invece che cittadini. Audience invece che opinione pubblica.
È già stato detto centinaia di volte – dati alla mano – che altri governi europei, di destra e di sinistra, si guardano bene, proprio in periodi di crisi, dalla tentazione di disinvestire nella cultura. L´investimento culturale altrove viene considerato quasi un bene-rifugio, semi che daranno frutti. E l´allargamento del mercato culturale (che pure, in termini di meri quattrini, vale miliardi di euro: sono 500 mila gli italiani che campano di arte e cultura) viene considerato un volano di altri consumi – per esempio il turismo e il commercio – e soprattutto di un miglioramento dei parametri di civiltà.
Da noi l´attacco alla scuola pubblica (che “inculca” nei giovani, secondo il premier, valori riprovevoli) e l´attacco alla cultura sono, in questo momento, le due ruote della stessa bicicletta. Un taglio così sfrontato ai finanziamenti statali per cinema, teatro, enti lirici, non è solo un avvertimento minaccioso a 250 mila lavoratori e artisti, che imparino a considerare parassitismo ciò che a loro pareva legittimo incentivo. È un punto programmatico di palmare evidenza: la cultura e l´arte non sono e non saranno mai priorità di questa maggioranza. L´incredibile vacanza del Ministero dei Beni culturali (il ministro, per ragioni misteriose, non va più al lavoro da mesi) è solo il tocco gogoliano di un dramma politico che investe frontalmente la società italiana. E il recentissimo reperimento di sei milioni di euro, ripartiti tra Stato e Regione Lazio, per finanziare la neonata Fondazione Zeffirelli (definito da Berlusconi una vittima della persecuzione di sinistra) è la ciliegina beffarda su una torta sottratta a tutta la cultura italiana.
La Repubblica 11.03.11
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“Il governo ha congelato altri 27 milioni del fondo statale per lo spettacolo. Portando l´industria culturale sull´orlo della chiusura”, di ROBERTO MANIA
Niente bis. Questa volta cala il sipario. E si chiude per tagli. Meno balletti, meno concerti, meno teatro, meno cinema, meno spettacolo. Silenzio. È la lenta eutanasia della cultura quella che si prospetta dopo che 27 milioni del Fondo unico per lo spettacolo (il Fus) sono stati congelati dal ministro dell´Economia, Giulio Tremonti, nel caso in cui la vendita delle frequenze del digitale terrestre dia un incasso inferiore alle previsioni. Da 258 milioni a 231 milioni, e forse anche di meno perché altri 50 milioni destinati al ministero dei Beni culturali sono stati bloccati. In tutto 77 milioni. La scure aveva colpito pure lo scorso anno, va detto. È la flemmatica tremontiana gestione delle finanze pubbliche: tagli lineari e – se serve – anche in via preventiva. «Tanto – avrebbe sostenuto il ministro – la cultura non si mangia».
L´industria culturale, ora, può chiudere i battenti. «Lo spettacolo dal vivo è tecnicamente morto», dice Riccardo Tozzi produttore di film di successo come Benvenuti al Sud. Paolo Protti, presidente dell´Agis, l´associazione delle imprese dello spettacolo, stima un taglio del 40 per cento in tutti i settori, occupazione compresa. È appena tornato da Londra per una riunione della categoria: «I miei colleghi si sono detti stupefatti per quello che sta succedendo in Italia». Perché noi – nel Paese dal più imponente patrimonio culturale – andiamo contromano: tagliamo. Pur investendo già mediamente il 10 per cento di meno di quanto facciano la Francia o la Germania.In un decennio le risorse destinate alla cultura sono diminuite di circa 960 milioni di euro, più del 30 per cento. Va in cultura lo 0,21 per cento del Pil, contro l´1 per cento in Francia.
Ma è (era?) il Fus la grande “mammella” dello spettacolo. Senza il Fus non c´è più nulla. Al Fus si abbeverano tutti, teatranti, cineasti e danzatori. E fa impressione leggere le serie storica degli stanziamenti riservati al Fondo: erano 357,48 milioni di euro nel 1985, sono 378 milioni nel 2010 che però, a valori costanti, corrispondono a 179,9 milioni di euro del 1985. Una perdita reale di oltre il 40 per cento. Per questo l´ultimo taglio di Tremonti corrisponde al colpo del ko. Lo dicono nel governo stesso in un gioco delle parti davvero pirandelliano. Prima dell´ultimo “congelamento” le risorse per la musica erano scese da 56 a 35 milioni; per la lirica da 196 a 122; per la danza da 9 a 5; per il teatro da 67 a 42; per il cinema da 76 a 47. Ora dovranno tutti tagliare del 10 per cento. Eccolo il collasso dello spettacolo.
Un ricercatore della Bocconi di Milano, Alex Turrini, ha calcolato il contributo che lo Stato ha, di fatto, richiesto negli anni a ciascun cittadino per poi poter assistere a uno spettacolo. Ha messo a confronto, e pubblicato su lavoce. info, i dati relativi al 1985 a quelli del 2009. A parte che in venticinque anni in termini reali lo stanziamento si è dimezzato, Turrini ha “scoperto” che mentre nel 1985 ci chiedeva di «rinunciare all´equivalente attuale di una serata all´anno in pizzeria, nel 2010 il ministero pensa che ogni cittadino valuti l´utilità dell´esistenza di teatri d´opera, di istituzioni musicali, di prosa, di compagnie di danza e della produzione di film italiani quanto il consumo di un menù completo da McDonald´s con gelato come dessert». Conclusione che non richiede alcun commento.
Eppure non c´è alternativa al finanziamento pubblico. La cultura è un prodotto particolare, non vale la regola della domanda e dell´offerta. O almeno non ci si può affidare solo a quella perché il rischio è che la qualità sprofondi in basso. Funziona così in tutto il mondo e non c´è alcun scontro tra liberisti e statalisti. C´è una parziale eccezione e riguarda il cinema. Quello italiano sta vivendo un nuovo boom: ha conquistato tra il 30 e il 40 per cento del mercato italiano. È un vero caso di scuola. I finanziamenti pubblici sono progressivamente crollati: dal 60 al 12 per cento. Ma il cinema è diverso da uno spettacolo di lirica o da un balletto. In ogni caso i tagli arriveranno: a Cinecittà Luce (non agli studi che sono privati), alla Mostra di Venezia, la Centro sperimentale, alle opere prime e seconde. Perché la promozione è un´attività inevitabilmente pubblica. Il neo-mecenatismo, come quello di Diego Della Valle, patron del gruppo Tod´s, che ha messo 25 milioni per restaurare il Colosseo, non è un´altra strada. Vale una tantum.
Nemmeno la Rai è quella di un tempo. Più o meno ha tagliato la produzione del 40 per cento. Stiamo assistendo a una nuova forma di delocalizzazione: per le fiction, ad esempio, si va all´estero (in Argentina, in Brasile e nei paesi dell´Europa orientale), dove costa meno. Il sindacato di categoria della Cgil ha stimato che tra gennaio 2008 e aprile del 2010 sono stati persi più di 76 milioni di euro tra mancati redditi dei lavoratori, mancati proventi delle società di noleggio e delle imprese dell´indotto e mancati introiti dello Stato. E in un dossier del Pd c´è scritto che «nel 2009 sono state circa 100 le settimane di lavorazioni estere in cui sono stati impiegati, mediamente, appena 10 lavoratori italiani». Abbiamo scelto di rinunciare alla cultura anche se poi non sono solo spese: il Regio di Torino, per esempio, versa ogni anno circa 15 milioni di euro allo Stato sotto forma di contributi e tasse, ma ne riceve dieci.
E certo non è quello dello spettacolo o della cultura il settore della rigidità del lavoro. Qui si sperimentano da sempre tutte le forme di flessibilità. Qui il lavoro è precarietà. Oltre il 50 per cento degli addetti ha un contratto atipico: dai contratti a termini alle “ipocrite” partite iva. Tutti senza tutele. L´età media è compresa tra i 30 e i 49 anni. Ci sono circa 250 mila artisti e professionisti di alta specializzazione ai quali vanno aggiunti oltre 140 mila tecnici. Si calcola che ogni euro speso per lo spettacolo ne produca quasi cinque. Ci sono restauratori, archivisti, archeologi, registi, traduttori, sceneggiatori, registi. E poi cantanti, danzatori, guide turistiche, annunciatori, macchinisti e attrezzisti di scena. L´indotto arriva fino al turismo.
È questo il popolo che protesta contro i tagli. Il presidente dell´Accademia di Santa Cecilia, Bruno Cagli, ha annunciato le sue dimissioni. Il direttore d´orchestra Antonio Pappano ha parlato di «scandalo». Il regista Paolo Virzì ha proposto di bloccare per un mese i cinema, i teatri, le fiction «perché – ha detto – la cultura è il nostro petrolio». Il direttore dell´´Eliseo di Roma, Massimo Monaci, ha detto che «il sistema crollerà». I lavoratori del Regio di Torino si sono presentati alla conferenza stampa per la presentazione dei “Vespri siciliani” con una bara avvolta nel tricolore. Secondo il presidente Fai, Ilaria Bortoletti Buitoni, «si è perso il senso del futuro».
Sono a rischio chiusura il Carlo Felice di Genova e il Comunale di Bologna. Il Teatridithalia di Milano è privato e non può fare nuove produzioni per il prossimo anno. Tremano i festival anche per via dei tagli ai trasferimenti locali. Al Festival della letteratura di Mantova andrà il 50 per cento delle risorse dell´anno scorso. Resiste la Scala. La Cgil e l´associazione “100 autori” saranno in piazza anche per la cultura nel “Costituzione day” di sabato prossimo. Ci saranno tre giornate di mobilitazione contro i tagli dal 26 al 28 marzo. Per gli altri, comunque, c´è sempre Raiset. Con Belen.
La Repubblica 11.03.11